Casa nomade

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di Claudio Agosti.

«Lei è all’orizzonte», dice Fernando Birri. «Mi avvicino di due passi, lei si allontana di due passi. Cammino per dieci passi e l’orizzonte si sposta dieci passi più in là. Per quanto io cammini, non la raggiungerò mai. A cosa serve allora l’utopia? Serve proprio a questo: a camminare.»

Eduardo Galeano – Finestra sull’utopia

Ora

Sono appena tornato o sto per partire? Devo disfare lo zaino o prepararlo? Ho l’impressione che da certi viaggi non si torni, che non finiscano mai. Così si diventa nomadi, erranti.

Tornato dalla Sicilia

Mi sento goffo e impacciato. Fatico a avviare la macchina, quasi la ingolfo, il motore si ferma. Mi muovo a scatti. Alla fine ce la faccio, ma a fatica. Mi sembra strano, insensato questo modo di muovermi, così veloce, artificiale.

Pochi giorni prima. La velocità è lenta, naturale, umana. Ci muoviamo a piedi in una Sicilia inaspettata, un entroterra di campi colorati, rari boschi e laghi.

Arrivo a Palermo, dove vengo subito riconosciuto da uno sconosciuto: te hai la faccia da nomade. Mi sento a casa. Fatto non banale, visto che nei giorni successivi mi sarei spostato a piedi, con persone conosciute da poco e dormendo per terra in palestre, scuole o conventi, a seconda di chi ci avrebbe ospitato. Si tratta di una casa nomade, che si sposta con noi, visto che ci siamo trovati qui con lo scopo di fondare una Repubblica Nomade.

Mentre si cammina si parla e ci si scambia storie. Mi viene in mente che un cammino e una narrazione sono simili: si segue un percorso, un filo, in un caso con i piedi, nell’altro con gli occhi. Inevitabilmente alcune delle mie storie vengono dal lavoro che facevo, sulla strada, con tossicodipendenti e barboni. Un altro modo di vivere la strada (sempre presente, protagonista della mia vita, mi rendo conto mentre cammino) e di raccontarsi storie. Altre storie provengono dal mio presente e dall’analisi bioenergetica che pratico come psicoterapeuta, e anche in questo caso siamo vicini al camminare con l’importanza che viene data ai piedi e a averli per terra (c’è un aneddoto secondo cui Lowen, il creatore dell’analisi bioenergetica avrebbe detto che, se Freud è ricordato per avere scoperto l’inconscio, lui lo sarebbe stato per aver scoperto i suoi piedi).

E i piedi sono stati inevitabilmente un altro argomento di queste chiacchiere nomadi. Piedi e vesciche, calzini. Ho imparato la meraviglia delle “pause calzino” e il miracolo di un abbeveratoio in cui rinfrescarsi, soprattutto i piedi.

E poi le persone, quelle con cui ho camminato e quelle che abbiamo incontrato, dallo sconosciuto che ci ha offerto la casa per poterci fare una doccia, al rivenditore di auto che ci ha dissetati. Infine, il giorno della mia ultima tappa, l’ingresso trionfale in un piccolo paese, Santo Stefano Quisquina, scortati dalla banda e dalla polizia.

Nel frattempo, lunghe chiacchierate, strade allungate e deviazioni, ci si è persi (non ci sono problemi, io sono bravo a perdermi), birre, panini o frutta recuperati per il pranzo, cene e tavolate enormi. Suor Lucilla che balla cantando “Garibaldi fu ferito”. Cani, randagi come noi. La vita (un abbeveratoio dove rinfrescare i piedi, sguazzare, per esempio) e la morte (ossa di animale in una macchia d’alberi, unica zona d’ombra su una strada assolata, per esempio).

E poi il ritorno, con tanto sonno (mi addormento al giardino botanico, nel duomo di Palermo, sul treno che mi porta in aeroporto e sull’aereo) perché quando cammini c’è tanta vita e non senti che hai dormito poco perché è bello fare tardi anche se ci si deve alzare presto (un grazie a Patty Pravo!). E il rientro, con tanti ricordi caldi e anche tanti sogni e progetti, per rincontrare queste anime nomadi.

Dissolvenza

(ora, se questo fosse un film, ci sarebbe una dissolvenza in nero, in modo da far intendere che il film sia finito, che stiano per arrivare i titoli di coda. Il respiro sospeso per un attimo, un’attesa. Una voce fuori campo dice: “Poi…” e tornano le immagini)

A casa (?), Bergamo

Ci si rincontra, con Roberta, altra nomade bergamasca. Si racconta, davanti a una birra, il cammino appena finito e già se ne pensa un altro. I nostri piedi non possono stare fermi troppo a lungo.

La disarmata

Quando penso a tutte queste persone con cui ho camminato e camminerò, penso a come saremmo potuti apparire a un osservatore esterno. 30-40 disperati, male in arnese, un’armata di folli, anzi, una disarmata perché, come il disertore di Vian, non abbiamo armi, siamo disarmati, disarmanti, disertori, disperati, dissidenti, distratti, disorientati, distinti, dissoluti, dispersi, disinibiti, dispettosi, disorganizzati, disastri…

Prima della Priula

Si programma, dicevo, un nuovo piccolo cammino, una rimpatriata senza patria. Percorrere la via Priula, un’antica via commerciale del ‘500 lentamente, a piedi, in opposizione alla fretta e alla (alta) velocità dei nostri tempi. Per riappropriarci del territorio e del Tempo, quel Tempo che perdiamo quando andiamo velocemente, sulle nostre macchine e non ci prendiamo il Tempo di respirare, ammirare il panorama, fermarci a chiacchierare con qualche sconosciuto. Così più o meno scrivevo pensando alla motivazione di questo piccolo cammino. Una cosa piccola che poi è diventata grande: alla fine abbiamo camminato in 20, nonostante la pioggia, nonostante il ferragosto, e abbiamo ottenuto risposte e accoglienza dai comuni in cui ci siamo fermati.

Poi, il bello di partire…

Perché devo essere così coglione?

Perché devo essere così coglione? Quando mi sono messo a camminare a piedi nudi nel parco, lo sapevo che rischiavo di venire punto da un’ape, come prima della Sicilia. Ma a me piace camminare a piedi nudi nell’erba. Come sento il bisogno di andare, partire, camminare, quel giorno lo sentivo per avere i piedi nudi. E quindi piede gonfio, cortisone e antibiotico, ghiaccio e mi sono perso la prima tappa. Ok, dei pezzetti li ho fatti, ho sentito cuore e gambe che non ce la facevano a stare fermi, perché avrei voluto essere con voi, compagni di viaggio.

E ora (queste righe le ho scritte mentre vi aspettavo, in drammatico ritardo, all’inizio della ciclopedonale della val brembana, la seconda tappa) vi aspetto trepidante, non vedo l’ora di sentire un tuffo al cuore, quando il primo di voi sbucherà dall’angolo!

Imparerò mai dai miei errori? Certe cose non si imparano, certi impulsi non si fermano. Continuerò a camminare, a essere punto, e a riprendere a camminare.

Lungo la via Priula

Sono successe tante cose, in questa cosa piccola che è diventata grande. Potrei dire delle due volte che mi sono commosso. Per una frase letta su una stalla, che diceva più o meno “Anche se il mondo finisse domani, pianterei comunque un seme”. Nelle trincee della prima guerra mondiale, al passo S. Marco, pensando al carnaio insulso delle guerre, tutte. Potrei dire di tutte quelle cose, grandi e piccole che sono successe, ma a volte è bene tacere, per non intaccare la magia, il mistero.

A casa, ovunque

C’è questo sentimento che accomuna e accompagna tutte queste esperienze, la sensazione di essere a casa, ovunque. Un repubblica nomade non ha frontiere, né confini. Per questo è ovunque. C’è una canzone che mi accompagna, da circa un anno, e sento che il sentimento è affine: “Coração Vagabundo” di Caetano Veloso.

Geometrie non euclidee

I rimasugli degli anni passati al liceo scientifico mi porterebbero a pensare che la via più breve fra un punto A e un punto B sia la linea retta che li collega. Ma chi la pensa così si attiene pigramente alle regole della geometria euclidea e considera tempo e spazio collegati da una semplice equazione lineare. Troppo semplice, troppo lineare per chi cammina: si riferiscono al tempo dell’orologio.

Camminando, il tempo che conta è quello vissuto, che non sempre viaggia alla stessa velocità delle lancette (ma magari alla velocità del Sole o delle stelle, sì, chissà). Ad esempio ci si accorge che il tempo impiegato per una tappa piuttosto lunga (ipotizziamo 30 km) da un lato sembra brevissimo, la giornata è volata. Però se si pensa a tutte le cose successe, le persone con cui abbiamo parlato, gli argomenti delle chiacchiere, le pause per bere e mangiare, per riposare, le pause-calzino, i diversi paesaggi e paesi attraversati; sembra passato molto più tempo, che a raccontare tutto ci vorrebbero giorni. Mentre un’equazione banalmente ci direbbe che 30 km diviso una velocità media di 3 km/h sono 10 ore, più le pause.

Il tempo dell’orologio è un tempo orizzontale, un asse delle ascisse frammentato rigorosamente in secondi, minuti, ore eccetera. É un tempo spietato, disumano, e sulla sua retta ognuno di noi occupa solo un breve segmento.

Il tempo vissuto, invece, è un tempo verticale che si estende sia verso l’alto che verso il basso, può essere anche obliquo e divergente. Ogni istante è unico, irripetibile, irrinunciabile. Nella sua complessità, infinito.

Nell’eternità di ogni istante, anche noi siamo infinito.

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