La memoria delle pietre

In cammino verso L’Aquila, tra Francigena e Aurelia

 Di Giovanni Giovannetti

Foto: Alessandra Licheri

Aulla è stretta dall’acqua: a ovest il fiume Magra, a sud e a nord i torrenti Aulella e Taverone. Qui ancora si piangono i due morti della devastante alluvione del novembre 2011. Lungo il Magra molte case sono in alveo, e questo rende conto di molte cose.

Raggiungo qui i “liguri” partiti da Genova il 27 maggio. Disegnando questo “braccio”, la sosta in Lunigiana ci era parsa un piccolo segno di solidale affetto verso chi già l’anno prima ci aveva ospitati in cammino verso Napoli. Ora si va a L’Aquila, e a collegare Aulla al capoluogo abruzzese può bastare il motivo di fondo di questa nuova impresa, sintetizzabile in “terremoto terremotati terremotanti”. Sì, terremotanti, in questo moto dal basso che vuole unire menti e corpi di persone diverse ma corali nell’affermare il principio della cittadinanza solidale, non a caso uno dei punti elettivi della carta costituzionale.

Ad Aulla ritrovo don Giovanni, parroco dell’antica abbazia di San Caprasio. Qui al Museo della Francigena, l’anno scorso incontrammo Paola Scarsi in un serrato pubblico dialogo su quanto hanno in comune il pellegrinaggio devozionale “interiore” e quello dichiaratamente laico del “Cammina cammina” 2011: credenti o meno, siamo cittadini militanti intenti a testimoniare quel “più” che unisce in questo nostro Paese lacerato.

Rivedo anche Riccardo Boggi, intelligente cultore di storia locale. Anche quest’anno Giovanni e Riccardo hanno organizzato un incontro, più ristretto. Intorno al tavolo siamo una quindicina: due preti, tre suore, camminatori e pubblico. Stella d’Italia è ormai in marcia da quasi un mese e provo a farmi testimone qui al nord di quanto ho visto e sentito camminando in Calabria. Concludo leggendo la lettera del Rom Ciaiò di Lamezia sui tre momenti che hanno segnato la sua vita: la scuola, un lavoro, una casa.

Prende la parola Laura: racconta l’arrivo ad Aulla dei profughi scampati alla Libia incendiata dalla guerra civile: «Quando c’è stata l’alluvione loro si erano offerti, ma la burocrazia ha per molto tempo impedito che intervenissero in nostro aiuto».

Sarzana e poi Avenza

Pioggia torrenziale sopra un percorso accidentato. Le strade sono torrenti. Ci inerpichiamo per saliscendi spaccagambe, lungo sentieri infangati: Bibola, Vecchietto e ancora su, a colmare un dislivello di notevole entità. Lassù incontriamo la nebbia, ma sono le nubi del temporale viste da dentro.

Con Stella d’Italia oggi cammina Angelo, geometra in pensione, amante del Tibet e delle belle donne. È partito solitario da Fidenza e vuole arrivare a Roma. Il motivo del suo viaggio nemmeno lui sa dirlo. Resterà con noi, e una volta giunto alla sua meta promette di raggiungerci a L’Aquila.

Entriamo stremati a Sarzana. Solo 16 chilometri, eppure pioggia e fango e saliscendi ne hanno fatto quasi un’epica Odissea. Passiamo nei pressi del convento di San Francesco. L’anno scorso qui avevo raccolto la storia di Luigi, il cinquantenne macellaio disoccupato, costretto a chiedere l’elemosina e un letto al prete magnanimo, di nascosto da quell’altro, che lo aveva cacciato dalla sua borghese chiesa per benpensanti nel centro cittadino. A volte nemmeno la carità unisce.

Ma quante Chiese ci sono? Quel prete di certo non era a Cosenza il 30 settembre 2008, dunque non sapeva che il Cardinale Dionigi Tettamanzi in quella sede aveva messo in guardia dal rischio che «sia pure in buona fede, anche la Chiesa partecipi più o meno direttamente a questo processo di emarginazione dei più derelitti, dei più poveri o dei più indifesi. Ne sia un esempio il divieto sostenuto anche da alcune personalità del mondo della Chiesa di vietare l’elemosina e altri atteggiamenti tipici della povera gente».

E a quale Chiesa appartiene il Cardinale Raffaele Martino? Dalle pagine del “Corriere della Sera”, ha definito l’elemosina «un diritto» e la sua proibizione «inaccettabile» (8 agosto 2008). Lo stesso Cardinale avverte: «se in una città o in un quartiere ci sono persone che per sopravvivere hanno bisogno di chiedere l’elemosina o rovistare nei rifiuti vuol dire che in essi è a rischio molto di più che l’igiene o il decoro ambientale».

Né quel prete era a Roma il 16 febbraio 1997, quando Giovanni Paolo II avvertì che l’elemosina, lungi dal ridursi a qualche episodica offerta di denaro, è assunzione di un atteggiamento di condivisione e di accoglienza: «Basta “aprire gli occhi”, per scorgere accanto a noi tanti fratelli che soffrono, materialmente e spiritualmente».

Quel prete è sembrato insensibile persino alle parole di Benedetto XVI, in particolare all’incoraggiamento da lui rivolto alle «parrocchie ed ogni altra comunità ad intensificare in Quaresima la pratica del digiuno personale e comunitario, coltivando altresì l’ascolto della Parola di Dio, la preghiera e – udite udite – l’elemosina» (messaggio per la Quaresima 2009).

Ma valga per tutti la parola dei Vangeli: «Ciò che avete fatto a uno di questi più piccoli, l’avete fatto a me» (Matteo 25,40).

Pietrasanta

Enio Mancini oggi è settantenne. Quando i suoi anni erano sei, è miracolosamente scampato alla strage nazifascista di Sant’Anna di Stazzema, minuscolo paese di montagna poco distante da Pietrasanta. Ci raggiunge alla Casa della Rocca presso cui siamo ospiti. Per questo incontro suor Ginetta ha concesso la “sala del camino”.

Sant’Anna. Tra le case sparse di questi pascoli montani nell’estate 1944 avevano trovato rifugio centinaia di sfollati dal sottostante litorale tirrenico. La guerra pareva lontano affare di eserciti, disposti sui due lati della vicina Linea gotica: di là gli alleati; di qua tedeschi e repubblichini, oltre a qualche brigata partigiana in disturbo sui monti.

La mattina del 12 agosto 1944 il paese è circondato da reparti tedeschi della 16ª SS Panzer-Grenadier Division di Max Simon accompagnati da repubblichini del posto a volto coperto. In zona anche la 4ª compagnia del battaglione esplorante guidata da Walter Reder. Assassini con la divisa. Cercavano partigiani e hanno trovato donne vecchi e bambini, rimasti nelle case ritenendo che nulla sarebbe loro capitato in quanto civili (gli uomini si erano rifugiati nei boschi per evitare il rastrellamento e la conseguente deportazione). Vengono massacrati con inaudita ferocia, mitragliati o uccisi con bombe a mano e lanciafiamme. Ancora oggi non si conosce il numero delle vittime: forse 600, forse meno (quelle accertabili sono 390). Una criminale operazione stragista contro civili inermi ad opera di invasati. Fare “terra bruciata”: lo stesso “metodo” adottato a Monte Sole presso Marzabotto poco più di un mese dopo (ancora Simon, ancora Reder: 770 civili uccisi).

La famiglia di Enio scampa al massacro solo perché un soldato diciottenne, comandato di ammazzarli, stomacato li risparmia: «Rimasto solo – racconta Mancini – gesticolando ci ha invitati a scappare. Subito dopo sentiamo una raffica di mitra. Era lui. Abbiamo temuto che fosse diretta a noi, e invece stava sparando in aria». Un ragazzo a suo modo eroico, che Mancini definisce «l’altra faccia di quella spaventosa giornata». Di lui non ha saputo più nulla, fino a tre anni fa. Il soldato era morto nel 1994 ma sulla strage di Sant’Anna e in particolare su quell’episodio aveva lasciato una confusa memoria scritta, così che, smanettando in internet, un suo giovane parente ha potuto faticosamente rintracciare i miracolati.

“Terra bruciata” sulla piazzetta davanti alla chiesa. Quella mattina 138 persone – quasi tutti donne e bambini – vengono massacrati e subito arsi con i lanciafiamme usando le panche della chiesa come legna: «Vedete questa fotografia? È di qualche giorno prima e solo due bambine sono sopravvissute. La nostra casa bruciava e cercammo inutilmente di spegnere l’incendio. Verso il pomeriggio un adulto passato dalla piazza portò la notizia della strage. Da quelle parti avevamo parenti e amici. Vidi i corpi massacrati della famiglia Pieri, dei Pierotti. Vidi i cadaveri bruciati sulla piazza. Tra loro cercai i miei piccoli amici. Ricordo l’odore della carne bruciata; una sensazione che ancora non ho superato è proprio l’odore di quell’immenso carnaio di cadaveri fumanti. C’è poi una cosa orribile…»

Che può esserci di più orribile di questa “terra bruciata”? Enio racconta ciò che vide Elio Toaff, il futuro rabbino capo di Roma, all’epoca partigiano su questi monti. Era giunto quasi per caso a Sant’Anna in quella tarda mattinata, poco dopo la partenza dei tedeschi: «Dietro la chiesa una sola casa superstite. L’uscio era spalancato. Toaff entrò e tutto pareva in ordine, a parte un dettaglio: in mezzo alla stanza sedeva morta la Evelina, quasi fosse stata viva. Il giorno prima del massacro aveva avuto le doglie per il suo terzo figlio. Le belve avevano squarciato il suo ventre con una baionetta e strappato il bimbo vivo dalla pancia e freddato con un colpo alla tempia. Il cordone ombelicale ancora legava il cadaverino alla madre uccisa».

Enio racconta dell’amico Enrico Pieri, dieci anni all’epoca, sopravvissuto tra i cadaveri perché lo avevano creduto morto. Emigrato in Svizzera, Enrico ha voluto che suo figlio imparasse il tedesco e oggi con Mancini è tra gli animatori dell’associazione “12 agosto”, meglio nota come associazione “martiri”, propugnatori di una diversa cultura della pace. A Sant’Anna o Pietrasanta o in Germania o… ovunque li chiamino i membri dell’associazione volentieri tengono periodici incontri con le scolaresche.

Educazione alla pace. Allargando progressivamente il cerchio, ricorderemo l’incontro a Sant’Anna, nell’agosto 2001, tra venti giovani israeliani e palestinesi: come osserva Enio, «alcuni fra loro hanno mantenuto i contatti e grazie a internet si sentono ancora oggi».

Lucca

Lucca e Pavia sono le mie città. A Lucca sono nato, a Pavia ho vissuto. Da Pietrasanta a Lucca, passando per Camaiore e Montemagno, il cammino si fa interminabile.

Trascorrevo le estati dai nonni contadini nelle campagne del Compitese, alle pendici del monte Serra. Agricoltura di autosostentamento, giovani ingabbiati entro una millenaria gerarchia familiare. Così mio padre migrò in Svizzera (lì conobbe mia madre) e dopo il ritorno alla alla Pieve – una parentesi – portò la sua famiglia a Pavia, scegliendo la città e la fabbrica: Snia Viscosa, reparto solfuro, il più nocivo. Due anni dopo passò alla Necchi, in fonderia. Per lui la terra era sinonimo di miseria, economica e insieme culturale. Abbandonare i campi servì anche ad allargare i propri orizzonti, a rendere più dinamica la vita, a lasciarsi alle spalle una esistenza già nota nella sostanza, conservativa e tale da secoli, con minime varianti. Una vita grama. Con la fabbrica, mio padre vide migliorare la sua condizione economica e peggiorare la sua salute.

Nonno era semianalfabeta ma nessuno sapeva narrare meglio di lui. Storie picaresche e di mistero, oppure guerresche inventate lì per lì, avventure di uomini e animali dal micromondo compitese. E poi il monte Serra che, per la “storica” antenna (“storica” poiché fu il primo “ponte” da Torino a Roma di quella tv italiana ai primordi), era assunto a personalissimo Olimpo catodico: un luogo abitato dai nuovi dei televisivi, che so, un Mike Buongiorno a colazione da Sandra Mondaini e Raimondo Vianello, o per un thè con Gino Bramieri in compagnia del Quartetto Cetra o di Carlo Dapporto.

Ora il monte Serra gronda di antenne che lo rendono distinguibile anche a distanza. Lo rivedo dalla terrazza di Piazzano, poco dopo il monumento a Giorgio Gaber eretto al passo di Montemagno (a ciascuno il suo Olimpo), e Lucca sembra lì a due passi. Un miraggio.

Altri migranti. A Lucca il Gruppo Volontario Accoglienza Immigrati oggi non offre più un letto e un pasto caldo. È andato oltre, aiutando i nuovi italiani a trovare casa sul mercato privato, facendosi garante con i proprietari e offrendo prestiti a interessi zero per le mensilità da anticipare e per la cauzione, da restituire spalmati su 48 mesi. Con un finanziamento regionale, hanno trovato 400 appartamenti e sistemato oltre 1000 persone. Pochissimi casi di insolvenza, tant’è vero che i comuni di Lucca e Capannori hanno loro chiesto di replicare l’iniziativa anche per chi tra gli italiani ora è in difficoltà.

Altopascio e, prima ancora, Capannori

Capannori (45.000 abitanti, 17.000 famiglie, 40 frazioni) è tra i maggiori Comuni italiani per estensione territoriale, ma è primo nella raccolta differenziata. Sulla piazza ci attende Alessio Ciacci, giovane assessore all’ambiente, per raccontare la locale eco-efficienza, estesa all’acqua (le 15 fonti pubbliche si avvalgono di sistemi di sicurezza a ultravioletti) all’aria, all’uso sostenibile del territorio, al contenimento del rumore e dell’inquinamento elettromagnetico e via via fino all’incentivazione dei pannolini lavabili o degli spazzolini per i denti a cui cambi la testina o le gomme da masticare biodegradabili, in acquisto presso le due farmacie comunali. Aggiungeremo i detersivi alla spina in 13 negozi del Comune e il latte, alla spina, a 1 euro al litro 24 ore su 24 presso i due distributori di Lammari e San Leonardo.

Qui la raccolta differenziata “porta a porta” raggiunge l’82 per cento dei rifiuti, con punte superiori al 90 per cento in alcune frazioni. Prima del 2006 il pattume era in crescita, ma da subito si è vista una flessione complessiva dell’1,8 per cento, oltre ad una eclatante riduzione del 23 per cento per i rifiuti indifferenziati destinati alla discarica.

È poi in corso la fase sperimentale di “Tariffa puntuale”, ovvero la più equa tariffa “variabile” a misura dei sacchi della indifferenziata effettivamente ritirati (sul sacchetto, un microchip personalizzato ne consente la registrazione) tale da incentivare la selezione dei materiali riciclabili, guardando al traguardo dei “rifiuti zero” entro il 2020.

Tra le buone pratiche locali si segnalano quella del compostaggio domestico (incentivata con la riduzione del 10 per cento della Tariffa di igiene ambientale) e l’eliminazione dell’acqua minerale in bottigliette dalle 22 mense scolastiche, sostituita con l’acqua comunale, oltre alla promozione delle fonti pubbliche (la “via dell’acqua”… il “parco dell’acqua”…) volta a eliminare il consumo di 3 milioni di bottiglie in plastica.

C’è poi l’“Isola del riuso”, gestita dalla Caritas, dove è possibile barattare oggetti ancora in buono stato: libri, mobili o altro.

Il giovane assessore racconta che il consenso popolare è alla base del successo, consenso ottenuto promuovendo decine di assemblee nei bar e nelle parrocchie, per comunicare le buone ragioni di questa piccola rivoluzione culturale, il senso del radicale cambiamento di consolidati comportamenti individuali e famigliari: «Consumiamo più di un terzo di ciò che la terra riesce a rigenerare – commenta Ciacci – con un gravoso spreco di materie prime. Tutti, cittadini e pubbliche amministrazioni, dobbiamo fare la nostra parte» così che, abbandonato il sistema dei cassonetti “lineari” «che deresponsabilizza» a Capannori è stato introdotto un conveniente sistema tariffario, calibrato sul consumo dei rifiuti, tale da consentire al Comune – tra raccolta differenziata e innovazioni – un risparmio di un milione e mezzo di euro ogni anno.

Mutuando il sistema assembleare di Porto Alegre in Brasile, parte di questi soldi (500.000 euro) viene oggi destinata al finanziamento di alcuni progetti “dal basso”. Chi li sceglie? «Ottanta concittadini estratti a sorte, persone che magari non sarebbero venute alle assemblee».

Torno a Pavia, ritrovo i cassonetti “lineari”, invasivi, antiestetici, maleodoranti: come le chiese romaniche o il Pontevecchio, fanno ormai parte del paesaggio. Insomma, uno schifo.

In città tengono banco gli avvisi di garanzia ai pubblici amministratori. Sulla stampa trova almeno spazio una ben diversa eccellenza locale: la dipendenza dal gioco d’azzardo. Una vera e propria piaga sociale di cui Pavia – una macchinetta mangiasoldi ogni 136 persone, 2.900 euro di spesa annuale procapite, ovvero 589 milioni di euro (avete capito bene: oltre mezzo miliardo in euro) – può a ragione vantarsi indiscussa e triste capitale nazionale. Da capitale del regno longobardo a capitale del videopoker, delle rendite parassitarie e degli sportelli bancari. A Pavia conta solo il capitale.

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