un altro modo di stare e di andare

Maria Pace Ottieri

Foto: Anna Maccioni

Trainava quest’anno i camminanti una meta misteriosa, l’Aquila. Come sarà? Che cosa troveremo? Pochi la conoscevano, e di quei pochi quasi nessuno l’aveva rivista dopo il terremoto, una meta che non si immagina è oggi cosa rara. C’è chi arriva da lontano, cammina da settimane, chi torna dopo altre tappe lungo I cinque percorsi, chi si aggiunge come me, da Lanciano, già in Abruzzo. La guadagniamo attraverso sentieri, boschi, campi di orzo biondo platino e vigneti allineati come righe su una stoffa, circondati dalla catena austera, dal manto pure biondo del Gran Sasso. Dormiamo in luoghi di fortuna, aule di scuole in vacanza, ristori di viandanti, centri polivalenti (?) ai margini di paesi desolati, svuotati prima dall’emigrazione e poi dal terremoto. Sono rimasti solo vecchi annoiati sulla piazza, sotto i solitari castelli, ancora alteri, ma affacciati oggi a pianure neutrali. Ogni luogo una scoperta: che il celebre guerriero di Capestrano, VI secolo a. C., una statua di pietra di due metri con lo strano cappello a tesa piatta, largo più di mezzo metro, è una creatura androgina, forse uomo, forse donna. Che gli affreschi medioevali dell’Oratorio del Pellegrino, nella frazione di Caporciano, Bominaco, sulla cresta, sono attraversati da una vena morbosa, con un Cristo femmineo ed esangue.

Negli stanzoni, tuttti giù per terra, facciamo casa, in fila, in un’intimità da ragazzi, che viene naturale. Sveniamo di stanchezza sui materassini, ci svegliamo nel cuore della notte, per camminare qualche ora al fresco. A volte i sentieri si perdono, o i tratturi della transumanza si rivelano asfaltati, ardenti come le statali spesso inevitabili e quando si trova una fontana di acqua gelata, è un momento di pura voluttà.

Il terremoto ci viene incontro a poco a poco, in un lento crescendo. E’ a Onna che ci investe in tutta la sua terribilità. Da un lato della strada, il paese raso al suolo. Case sbriciolate o denudate, come se fossero stati strappati loro i vestiti di dosso, una parete di piastrelle al secondo piano e una mensola con ancora riposti i detersivi, un quadro, un appendino. Quaranta dei quattrocento abitanti sono morti, tra questi due neonati e due fidanzati clandestini, i genitori hanno scoperto la loro fuga d’amore davanti ai due cadaveri. Sono crollate le case in pietra e in cemento armato e anche una casa ancora in costruzione, nata morta.

Dall’altro lato, un villaggio da telefilm americano, una subdivision con le case di legno colorate e tutte uguali, a un piano, circondate dal prato rasato. E’ stato il primo paese a essere ricostruito, la Germania, per via di una strage nazista avvenuta proprio qui, diciassette persone fucilate l’11 giugno del 1944, ha donato la Chiesa dal tetto aguzzo e un palazzetto comunitario. Molti anziani della vecchia Onna forse queste case senza scale, facili, nuove, le avrebbero magari sognate, e che le abbiano ottenute al prezzo di morte e distruzione è un pensiero che fa venire i brividi. Il nuovo paese è silenziosissimo, sembra disabitato anch’esso, come se I suoi abitanti non osassero far sentire ai morti I rumori della loro nuova vita. Qualcuno ha messo i sette nani sul prato, qualcun altro coltiva un piccolo orto, nella chiesa celebra messa un giovane prete sudamericano.

L’Aquila è ormai vicina, troppo vicina. Allunghiamo il percorso fino a Pescomaggiore dove una comunità di virtuosi neoarcaici ha costruito case con balle di paglia intonacate. Coltivano farro, raccolgono le erbe dei prati, producono saponi naturali e bevande di ginepro con accanita volontà di autosufficienza. Ci rimettiamo in cammino e dopo un paio d’ore, in dirittura di arrivo, perdiamo il sentiero, i più intrepidi con gli zaini sulle spalle, e ci troviamo incastrati in una selva fitta di vegetazione inestricabile su una ripidissima collina, un ultimo colpo di scena, degno di un corso di sopravvivenza studiato da dispettosi consulenti d’azienda.

 Ai primi segni urbani della periferia, scroscia la pioggia. Arriviamo bagnati, laceri, stanchissimi, a Piazza della Fontana luminosa dove da poco sono confluiti anche i camminatori che vengono da nord e da Roma. Ci accolgono le marcette un po’ meste della piccola banda del paese di Borbona. Qualche aquilano che forse non sa nulla di noi ci guarda stupito. La città è deserta, gruppi di militari presidiano qua e là le transenne della zona rossa. Chiese e palazzi armati di imponenti ponteggi sembrano installazioni d’arte contemporanea, con i loro tubi d’acciaio neri e i giunti che luccicano al sole, giunti letteralmente d’oro, forniti da varie aziende tra cui la Marcegaglia Construction Equipments, a noleggio, un tassametro che corre all’impazzata dai giorni successivi al terremoto. Il professor Paolo Ferloni, chimico camminante, che si intende seriamente di molte cose, dice che alcuni dei ponteggi non impediscono affatto il crollo del sottostante edificio e che in più di un caso sono inutilmente sovradimensionati. Dopo un certo periodo, oltretutto, il costo dei ponteggi è ammortizzato e il fornitore non si preoccupa più della loro manutenzione. Anche il legno delle puntellature che si paga a metro cubo, marcisce. Non si vedono cantieri in attività, operai che lavorano, ma case cieche e negozi chiusi che hanno mantenuto solo la scritta,  Passacantando, Zappacosta, cognomi locali che derivano da soprannomi come Cetrullo, Cipollone, Pezzopane.

Foto: Roberta Medini

In un un libretto ottocentesco dal titolo “Les catastrophe célèbres” di H. De Chavannes de la Giraudière, che sapevo di avere a casa, al ritorno trovo una descrizione del terremoto asciutta ed efficacissima per immaginarselo. Racconta dei terremoti che verso la fine del ‘700 si susseguirono ininterrottamente dal 5 febbraio 1783 fino alla metà dell’anno 1787 nel sud d’Italia, accanendosi sulla Calabria.

“In questo infelice paese tutto fu sconvolto: certe case furono sollevate al di sopra del livello della strada, mentre altre, a poca distanza, sprofondarono nella terra che si apriva da tutte le parti. Masse rocciose caddero nella valle interrompendo il corso di ruscelli e fiumiciattoli e deviandone le acque che formarono dei laghi. Le acque accumulate si aprivano nuovi passaggi, rompendo i fianchi della valle in nuovi punti o allargando le fessure delle montagne. Il paese cambiò talmente d’aspetto che molti degli abitanti non ritrovarono o non riconobbero più i loro campi, altri cercarono inutilmente le strade, i corsi d’acqua e gli accidenti del terreno che servivano da confini.

Tra i numerosi crepacci che si aprirono, alcuni raggiunsero i cinquanta  metri di larghezza e la lunghezza di un chilometro.

In certi punti la crosta terrestre si dislocò e spazi considerevoli del terreno sembrarono sprofondare negli abissi, trascinando uomini, case, fattorie con tutto quello che contenevano, inghiottiti nell’abisso senza che ne restasse la minima traccia. Il terreno su cui era costruita la città di Polistena sprofondò tutto intero, percorse uno spazio notevole con le case che sosteneva e si fermò sull’orlo di un burrone. Un uliveto su una scarpata scoscesa  venne lanciato nella piana sottostante da cinquanta metri di altezza. Individui inghiottiti da un crepaccio ne vennero sputati fuori da un potente getto d’acqua, per effetto di una seconda scossa succeduta a quella che li aveva inghiottiti.”

All’Aquila ci aspettavano i fuochi. Il vero falò nel centro della piazza del Duomo, dove abbiamo arrostito su lunghi rami, la ventresca di maiale, in onore alla tradizione dei pastori, e quelli metaforici: incontri su temi letterari e tecnici, spettacoli forti come quello di Tiziana Irti e Antonio G.Tucci , “Mille giorni” o lo spettacolo itinerante nella città abbandonata del collettivo del Teatro Valle, giovani e bravissimi attori e attrici che spuntavano al di là delle reti, come pecore in gabbia, pecora numero uno, pecora numero due…

Per tutto l’inverno nelle riunioni che preparavano l’impresa di Stella d’Italia si diceva che gli aquilani non volevano parlare di terremoto, ma tutti i temi e i discorsi dei fuochi riportavano puntualmente lì. Le comunità ferite restano a lungo dominate dall’ ossessione di ciò che le ha rese vittime, e più dichiarano di volersene liberare più è il sintomo che ne sono ancora schiacciate.

Gli aquilani sono stanchi, apatici, si chiedono di chi sia la loro città. Tutte le settimane arriva qualcuno da fuori a portare un concerto, una tavola rotonda, uno spettacolo e niente cambia.  Hanno imparato una nuova lingua, l’abruzzese arcaico e paesano delle parole tronche piene di zeta e u e j è sopraffatto dagli acrostici: C.a.s.e. (complessi antisismici sostenibili ecocompatibili), Map (Moduli abitativi provvisori), Musp, (Moduli a uso scolastico provvisorio), Mep  (Moduli ecclesiastici provvisori) .

Con un piccolo drappello ho visitato una delle cosiddette diciannove new town, i  quartieri costruiti con grande vanto dal precedente governo nella cintura intorno alla città. Sono case qualsiasi, piuttosto brutte, già bisognose di manutenzione, con gravi difetti di isolamento termico come sottolinea un rapporto di Legambiente, ma non diverse da quelle che sorgono nelle periferie di Milano e Roma, anche per mano di note cooperative rosse. Di certo non vi si legge quella “sollecitudine architettrice che è nobilmente urbana e sensatamente razionale” che descrive Gadda dell’Aquila ne “Le meraviglie d’Italia”.

Foto: Alessandra Pugnetti

Non un negozio, non una piazza, ma stenti giardinetti ingialliti e giochi per bambini. Mentre ci aggiravamo sotto un sole cocente, un padre si dirigeva lì con i suoi piccoli figli.  Entrambi avevamo voglia di parlare, ma alla mia domanda “dove fate la spesa?” ha avuto uno scatto. “Basta con questa domanda, è l’unica che sapete fare. Queste case ci hanno dato serenità, abbiamo un tetto sulla testa. Il problema non è dove fare la spesa, la facciamo nei supermercati, come in tutti i quartieri nuovi delle città. Dobbiamo cominciare a parlare del lavoro che non c’è più, anche per me che sono un piccolo imprenditore e me la cavavo bene. Non abbiamo avuto nessn incentivo, nessuno sgravio reale. Io domani, lunedì, vado a licenziare i miei due dipendenti, con due bambini a testa. Non ce la faccio più, sto pagando le bollette di questi ultimi anni, perché la sospensione dei pagamenti è finita, più quelle nuove, i contributi, la vita.”

Le case sono in comodato d’uso, arredate, tutte uguali, con gli stessi canovacci e le stesse presine in cucina. Se ti allontani per più di otto giorni lo devi comunicare e se per caso stai via tre mesi, ti mettono d’ufficio in una casa più piccola.

Gli aquilani si sono sentiti espropriati dalla possibilità di ricostruire le loro case, i paesi e la città. Hanno deciso per loro i due B., non c’è bisogno di nominarli, per conto della Protezione Civile e del Governo.

All’epoca del terremoto del Friuli tutti parteciparono alla ricostruzione dal giorno dopo, ancora prima delle case furono rimesse in piedi le fabbriche, qui si è promesso un miliardo per rilanciare l’economia e non è arrivato un centesimo. Di ricostruire la città, uno dei centri storici più grandi e belli d’Italia, non se ne è più parlato.

Resta l’impressione che il terremoto abbia offerto il pretesto di un grande esperimento di dissoluzione di una società. Sarà stata già languida, forse un po’ seduta nella sua vocazione di centro della burocrazia fin dai tempi dei Borboni, ma era una comunità che abitava una città pensata settecento anni prima e ricostruita ad ogni precedente terremoto.

Leggete cosa dice lo scrittore giapponese Haruki Murakami del terremoto dell’11 marzo 2011:

…“La grande maggioranza dei giapponesi è stata profondamente traumatizzata da questo terremoto. Per quanto possiamo essere abituati ai terremoti, ancora non siamo riusciti a farci una ragione delle dimensioni del danno. Ci sentiamo impotenti e siamo in ansia per il futuro di questo Paese.

Alla fine rivitalizzeremo la nostra mente, ci alzeremo e ricostruiremo. Non ho vere paure in questo senso.

È così che siamo sopravvissuti nel corso di tutta la nostra lunga storia. Non possiamo essere di alcun aiuto se restiamo immobili e sopraffatti dallo choc. Le case demolite possono essere ricostruite e le strade distrutte possono essere riparate….

In breve, abbiamo in affitto una camera sul pianeta Terra senza alcun permesso. Il pianeta Terra non ci chiede mai di vivere su di esso. Se trema un po’ non possiamo lamentarcene, poiché tremare di tanto in tanto è una delle caratteristiche della terra. Che ci piaccia o no dobbiamo convivere con la natura…

….Ciò di cui voglio parlare qui non è qualcosa come edifici o strade, che possono essere ricostruiti, ma piuttosto cose che non possono essere ricostruite facilmente, cose come etica o valori. Sono cose che non possiedono una forma fisica. Una volta distrutte è difficile ripararle, perché non possiamo farlo con macchine, lavoro e materiali.

Quello di cui sto parlando in concreto sono gli impianti nucleari di Fukushima…..

…..Il motivo per cui un incidente così tragico ha avuto luogo è più o meno chiaro. Le persone che hanno costruito questi impianti nucleari non avevano immaginato che uno tsumani di tali dimensioni li avrebbe colpiti. Alcuni esperti avevano fatto notare che tsunami di dimensioni simili avevano già colpito queste regioni e avevano fatto pressione affinché i parametri di sicurezza venissero rivisti, ma le compagnie elettriche li avevano ignorati, poiché le compagnie elettriche, in quanto imprese commerciali, non avevano alcuna intenzione di investire in modo significativo in vista di uno tsunami che potrebbe abbattersi una volta ogni cento anni.

Il governo, che dovrebbe garantire la sicurezza degli impianti nucleari con rigide regolamentazioni, pare che abbia abbassato i parametri di sicurezza per promuovere lo sviluppo dell’energia nucleare.

Dovremmo indagare queste motivazioni e se vi troviamo degli errori dobbiamo correggerli. Centinaia di migliaia di persone sono state costrette a lasciare la propria terra ritrovandosi con la propria vita sconvolta. È giusto indignarsi al riguardo.

Non so perché i giapponesi si indignino così di rado. Sono bravi a essere pazienti, ma non lo sono altrettanto a indignarsi.  Ma questa volta persino i giapponesi si sono indignati sul serio.

Allo stesso tempo dobbiamo essere critici verso noi stessi, noi che abbiamo permesso o tollerato questi sistemi alterati.

Questo incidente è in relazione con la nostra etica e i nostri valori….

… Avremmo dovuto fare dello sviluppo della produzione di energia non nucleare il fondamento della nostra politica dopo la seconda guerra mondiale. Sarebbe dovuto essere questo il modo di assumerci la nostra responsabilità collettiva per le vittime di Hiroshima e Nagasaki. In Giappone avevamo bisogno di un’etica forte, di valori forti e di inviare un messaggio forte che per i giapponesi sarebbe stato una possibilità di dare un autentico contributo al mondo. Ma abbiamo trascurato di imboccare questa strada importante, preferendole quella facile dell’“efficienza” a sostegno del nostro rapido sviluppo economico.

È compito degli esperti ricostruire strade e edifici distrutti, ma è dovere di tutti noi ristabilire etica e principi danneggiati. Cominciamo piangendo coloro che sono morti, prendendoci cura delle vittime del disastro e con il desiderio naturale di non permettere che la loro sofferenza e le loro ferite siano vane. Ciò assumerà la forma di un’opera ingegnosa e silenziosa che richiederà notevole pazienza. A questo scopo dobbiamo unire le nostre forze, così come l’intera popolazione di un villaggio va fuori insieme a coltivare i campi e a seminare in un’assolata mattina di  primavera.”

O ad attraversare l’Italia a piedi per incidere sulla terra un segno diverso, innocuo, ma vivo, che possa indicare un altro modo di stare e di andare.

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