Il Palombaro e i femori di mulo

Carla Benedetti

Foto: Lulù Izzo

E’ la prima volta che vado a Matera. Ci sono arrivata il 13 giugno non a piedi,  come gli altri,  ma in autobus da Bari. La fermata è nella città nuova. Perciò la Matera dei Sassi, che desideravo vedere da anni, mi è rimasta nascosta per un po’. Eppure era a poche centinaia di metri da lì, come avrei scoperto più tardi.

Ad aspettarmi c’erano Antonio, Luca e Fernando (che ho riconosciuto subito dai grandi baffi e dal ritratto che ne ha fatto Tiziano sul blog di Cammina cammina). Ci siamo diretti al Campo Scuola, dove tutti gli altri avevano dormito la notte prima (sia il gruppo che ha attraversato il Salento e la costa ionica della Puglia, sia quello che ha risalito la Calabria, da Reggio). C’era un unico lettino rimasto libero e subito l’ho “prenotato” mettendoci sopra il mio zaino.

 Una parte dei camminatori si riposava all’ombra di grandi pini. Mi hanno raccontato del loro arrivo, il giorno prima. Hanno raggiunto Matera dalla parte opposta alla mia, dove la città vecchia si ferma a ridosso di quella specie di profondissimo fossato che è la Gravina, che le corre attorno. L’hanno vista prima da lontano, poi l’hanno persa scendendo giù per la Gravina, e infine ritrovata dopo aver risalito l’altro versante della voragine. Erano esaltati per la bellezza dello spettacolo guadagnato con fatica da quella prospettiva insolita. Io mi ero persa quell’arrivo e li ho invidiati.  Antonio diceva di aver capito finalmente come è costruita quella strabiliante città, cresciuta in simbiosi con la pietra. Luca di aver visto la compresenza di storia e preistoria. Mi hanno anche raccontato dell’accoglienza del sindaco, Salvatore Adduce, della bella atmosfera, e di una chiesa rupestre visitata nella notte, di straforo, nonostante fosse chiusa da un cancello.

La mia entrata in Matera comincia così alle tre del pomeriggio dopo il pasto che il Comune ci ha inviato al Campo Scuola, in grandi contenitori. Guidati da Anna Tamburrino, esile ed energica, siamo scivolati  nel sasso Barisano e poi nel sasso Caveoso (nome cavo, che sa di pietra cava). O meglio, gli siamo penetrati sotto, entrando nella grande cisterna scavata sotto la piazza, e scandita in volte e archi altissimi, chiamata “il palombaro”. E’ una riserva d’acqua di dimensioni immani, e si fa fatica a immaginare come potesse riempirsi fino al colmo, in una terra così arsa, grazie alle tante piccole condutture che convogliavano qui le gocce di pioggia  raccolte meticolosamente da tetti e grondaie. Un ingegno idrico che ha dissetato generazioni e generazioni, fino a che l’acquedotto comunale non l’ha resa superfluo. Resterà per sempre superfluo? O non verrà un giorno in cui altre generazioni torneranno a raccogliere acqua in quel modo? Ogni casa dei sassi ha ancora la sua grondaia in coccio (nel Sasso Caveoso ne ho vista una sorretta da femori di mulo murati a mo’ di mensole) che conduce l’acqua piovana, goccia dopo goccia, in una piccola cisterna.

Quando risaliamo all’aperto vediamo  lo spiazzo sotto cui stavamo poco prima. Da lì si vedono entrambi i Sassi, uno di fronte all’altro, allargarsi uno di qua e uno di là sotto il sole. Il  vento  rende sopportabile la calura e tutto quel pieno di luce e di pietra.

Mi rendo conto camminandovi dentro che questa città scavata nella pietra, con le facciate appoggiate alle caverne, è stata abitata dalla preistoria a oggi senza soluzione di continuità. C’è stato solo un periodo in cui è stata abbandonata, dagli anni 60 agli anni 90, un nonnulla in rapporto ai suoi tempi lunghissimi. Nel dopoguerra dicevano che era la vergogna del paese per le condizioni abitative e sanitarie. Oggi è di nuovo abitata, e viva.

Davanti a una casa del sasso Caveoso c’è una roccia scolpita. E’ Matera in piccolo, un piccolo presepe che riproduce in scala uno scorcio dei sassi.

Al Palazzotto del Casale il vento è più forte. Parlano con un microfono volante tra l’aria mossa prima Antonio, poi Giovanni, poi Fabiola. Carla Chiarelli legge poesie di Alfonso Guida, e poi ne legge lo stesso Alfonso, con il suo corpo timido. Sopra di noi, sul terrazzo della casa, un uomo di mezza età siede guardando da un’altra parte. Ogni tanto si volta verso l’oratore di turno, e guarda nel punto in cui tutti noi guardiamo, per poi ritornare quasi subito alla sua indolente distrazione. Mangiamo cocomero seduti sulla pietra. Poi ricomincia il pellegrinaggio, con altre soste parlatorie. E’ tutto così aperto e ventoso e bello. Le quinte si stratificano, si alzano, e a un certo punto, su una strada in salita, mentre qualcuno legge, alzando gli occhi vedo la quinta più alta bruciare in un oro accecante. E’ un palazzetto su in alto, che il sole ormai basso ancora colpisce, mentre noi siamo già in ombra.

A un certo punto, a una svolta lungo una strada aperta sulla Gravina, Antonio mi chiede di leggere il testo di Simone Weil che mi ero portata. E’ un testo sorprendente, scritto nel 1942, che parla dei bisogni vitali dell’anima umana, e che ci era servito in precedenza per i “Comizi” del “Primo amore”. Mi prende alla sprovvista perché non era nel programma. E così, in mezzo al vento, con la mia voce poco potente, mi sono trovata a enunciare parole come queste, alla cui forza il mio fiato non riusciva a sopperire:

La collettività ha le sue radici nel passato. Essa costituisce l’unico organo di conservazione per i tesori spirituali accumulati dai morti, l’unico organo di trasmissione mediante il quale i morti possono parlare ai vivi. E la sola cosa terrestre che abbia un legame diretto con il destino eterno dell’uomo è lo splendore di coloro i quali hanno saputo prendere coscienza completa di quel destino, trasmesso da generazione a generazione…

A Piazza Pascoli, davanti a un palazzo che dà le spalle al Sasso Caveoso, e guarda volutamente in direzione opposta a quella che fu considerata la vergogna d’Italia, è prevista l’ultima stazione. Al centro della piazza c’è una grande incudine e diversi martelli. Una passante, incuriosita, ne prende uno e dà un colpo per sentire l’effetto. Di lì a poco inizia la performance poetico-musicale di Domenico Brancale. I versi in dialetto sono di grande effetto, i suoni dell’incudine sono leggeri e flebili, tutto il contrario di quel che ci si poteva aspettare dal baccano del ferro. Il vento soffia freddo. Alcuni di noi si rifugiano sull’ingresso della bella libreria lì di fronte, guardando e ascoltando al riparo dalle folate. Paolo Verri, torinese, vivace e ospitale, ci accoglie a casa sua per una cena veloce. E’ lì come direttore di Matera 2019. Incredibile, ma questa città di sasso, vergogna d’Italia, oggi miracolosamente rigenerata, è in lizza per diventare la capitale della cultura.

Stanchi, torniamo al Campo Scuola per la notte. Il cancello è chiuso. La chiave ce l’ha Erica che è rimasta in giro con Fabiola. Ci siamo dimenticati di chiedergliela. Fa freddo, e come sempre succede nei momenti di disagio e di disorganizzazione qualcuno spreca energia a sbuffare e a recriminare : “il gruppo non si deve mai dividere!” Allora Fernando, con la sua calma temperata, propone di fare un po’ di joga per scaldarci e passare il tempo aspettando le chiavi. Ci spelliamo le mani sui sassi facendo il saluto al sole.

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One thought on “Il Palombaro e i femori di mulo

  1. Irene Greco scrive:

    Grazie Carla di questo racconto. Conosco Matera e questo racconto mi ha fatto rivivere sensazioni provate lì e in altri luoghi poco o per niente conosciuti dell’interno della Calabria, la mia regione.
    Finalmente un racconto che non fa riferimento a problemi, divisioni, tensioni che postati in questa sede danno un’idea falsata del senso di Stella d’Italia e fanno male soprattutto a chi ha dedicato tempo ed energie con tutti i limiti,;siamo umani1!!!!

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