Interessante e rivoluzionario

Con molto piacere riceviamo e pubblichiamo alcune considerazioni di Patrizia Cola.

appeso

Interessante e rivoluzionario: appena nata la Repubblica Nomade cresce. Ovviamente, come ogni buon neonato, il cui tasso di sviluppo nei primi mesi di vita è molto elevato. Ma qui non siamo davanti a una mera questione di fisiologia che poi si stabilizza e si arresta. Piuttosto intravedo la virulenza di un fenomeno di proficuo contagio. Come un eco che trova riflessi continui, generosi e naturali intorno a sé.

Aderisco. Per ora nello spirito e spero anche presto col corpo, e soprattutto con i piedi.

A proposito dei piedi: mi viene in mente che anni fa, scrissi una piccola riflessione a conclusione di un percorso formativo di lavoro (settore penitenziario) in cui esaltavo le cose fatte “con i piedi”, partendo da una metafora suggerita dal romanzo “ Il Castello dei destini incrociati” di Calvino, relativa alle figure dei Tarocchi. All’epoca mi ero curiosamente concentrata sul personaggio dell’Appeso. Un uomo a testa in giù che contempla il mondo. Il fulcro di questa immagine era ed è, nella mia lettura, nei piedi da cui parte e si regge la raffigurazione con il conseguente ribaltamento del corpo. Oggi l’idea di mettersi a pensare e fare “con i piedi” è assolutamente attuale e particolarmente efficace; leggere le riflessioni di Antonio Moresco ha subito richiamato dal fondo della memoria con forza e qualche filo di emozione questa piccola considerazione. Allora, questo pensiero apparve suggestivo, ora, è effettivo e coerente con una serie di esperienze e linee di direzione che probabilmente anche da lì sono maturate. I piedi sono spesso nella geografia del corpo una zona periferica, un’estremità di poco conto, più noti per gli umori olfattivi e per le prestazioni a cui sono ordinariamente tenuti.

L’Appeso propone un rovesciamento di almeno centottanta gradi, un’inversione di tendenza e soprattutto la considerazione di funzioni umane poste, generalmente, in secondo piano, reputate accessorie. Noi siamo concentrai sulla testa che ci identifica, rappresenta e conduce oppure sull’estetica del corpo che ci rende visibili, meno o nulla sulle funzioni e le potenzialità intrinseche. Invece cosa accade quando agiamo, pensiamo, ci proponiamo con qualche altra parte di noi? Con i piedi, per esempio? Cosa accade quando cerchiamo di assumere un’altra prospettiva, un punto di vista inedito, ribaltato? Pensate alle suggestioni di questa operazione per chi opera con persone che abitano le aree marginali della nostra realtà sociale? Questo non è un vezzo ma un attributo essenziale, direi, indispensabile per se stessi e per coloro di cui ci si occupa. Più semplicemente, però, questo approccio non è una dotazione riservata ad alcuni che si muovono in qualche estremità del creato: è per tutti. Anche se è decisamente utile, non è certamente un approccio scontato, anzi. Non è così diffuso ma è sicuramente fecondo. E la repentina vivacità della Repubblica Nomade ne è una concreta testimonianza. Neppure ha emesso i primi vagiti che già incrocia altre sensibilità e matura  corrispondenze.

Agire con “i piedi” vuol dire non azzerare il resto del corpo o dare sempre la priorità a delle parti, bensì integrare lo sguardo con altre prospettive, non dare per scontato nulla e valorizzare l’essere umano nel suo complesso, tornare a forme di pensiero e azione originarie e primigenie, come il camminare.

Camminare appartiene a tutti. Appartiene ai piedi e i piedi stanno a contatto con la terra, con la materia, con l’energia degli elementi che incontra quella del corpo. I piedi hanno una loro logica, un’intelligenza propria. Agire e pensare con i piedi può apparire poco elegante e non straordinario, ma è proprio dentro la banalità di un gesto umano basilare, trasversale e universale che risiede la sua – innocua – potenza. Già solo camminando, chiunque può unire due punti di un territorio e scoprire dentro di sé una valenza magari a lungo sopita oppure non ancora conosciuta: qualcosa che è intrinseco e è non esterno, dato da altri o da strumenti.

In quello che ho letto, apprezzo molto la consapevolezza che certi percorsi, come quello di mettere insieme tante realtà differenti, potrebbero rilevarsi – almeno a tratti – tortuosi ed essere segnati da asprezze. Un avveduto camminatore sa che la via non è sempre piana o amena; l’unica certezza di cui può dotarsi è di essere pronto a misurarsi con il percorso assecondando le sinuosità del tragitto.

Auspico che il fine e soprattutto il modo – l’andare camminando -siano un’egida dove tanti possano idealmente sentirsi rappresentati, almeno per alcuni aspetti.

Trovare dei comuni denominatori non significa costruire sodalizi assoluti e pervasi, trovare correlazioni che poi rischiano di trasformarsi in vincoli, appartenenze e confluenze limitanti. Come in cammino si possono condividere dei tratti, alcuni scorci e poi sviluppare traiettorie differenti, per ritrovarsi più avanti oppure no. Come in cammino è possibile condividere le stesse risorse, bere dalla medesima fonte, assaporare la stessa stanchezza ma poi ognuno ha il suo passo, la propria direzione, andatura, bagaglio. E la meta ha sempre una dimensione soggettiva.

Nella letteratura sul tema delle reti sociali, si parla di “legami deboli”: appartenenze transitorie o temporanee, ma comunque valide e significative, che si attivano per questioni specifiche e tematiche circoscritte. Come se fossero relazioni latenti, sottotraccia che si innescano quando serve. Elementi, a mio modo di vedere, coerenti con la cultura nomade. L’aggettivo “deboli” non denota fragilità bensì la sua natura duttile; è come un muscolo che si contrae quando occorre. Non è cagionevole, è un’energia che non imbriglia e non omologa, a ben vedere contiene forti elementi di solidarietà e condivisione in un clima di rispetto e autorealizzazione, dove ciascuno ha la piena possibilità di restare se stesso.

Essere soggetti erranti ci conduce in luoghi differenti di cui alla fine siamo impregnati e di cui portiamo addosso delle tracce. L’anima, comunque, resta nomade, andante, capace di vagare, di emanciparsi costruttivamente da ciascuna esperienza. E di questo ha bisogno. Nel senso che il filo di unione con l’esterno e gli altri non deve essere statico ed eccessivamente contenitivo. Non è un legaccio, né è subordinato allo stare, può sostenere; ci accompagna e appartiene come un attributo dello zaino che ci portiamo sulle spalle.

Chi cammina non segna confini, segue un percorso che non è mai esclusivo ma infinitamente declinabile da chiunque lo percorra.

Grazie

 

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