20 – 28 maggio 2011: da Milano al Passo della Cisa

Le prime nove tappe di “Cammina cammina” nel diario di viaggio di
Tiziano Colombi

Una mattina ci siam svegliati…

Venerdì 20 maggio 2011. Prima tappa: Milano – Pavia. 37 km

Siamo partiti alle 8.00 in punto dalla Cascina Cuccagna, ma già dopo le 7.00 c’erano diverse persone ad aspettare.
S’erano prenotate quaranta persone per la prima tappa, ne sono arrivate cinquanta persone e non solo da Milano, ma anche da Genova, Roma, Torino, Pavia, Bologna, Trieste, Catanzaro, Bergamo. Abbiamo camminato lungo il naviglio pavese, con le chiuse leonardesche, immersi nel paesaggio della pianura, la luce accecante sullo specchio delle risaie, quando, alle 18.30, siamo arrivati a Pavia. Trentasette chilometri.
Il clima è stato di grande convinzione e allegria, i piccoli problemi che ci son stati (qualche calo di zuccheri, qualche vescica, qualche crampo e una piccola polemica sulla leadership) sono sempre stati superati con spirito coraggioso e tranquillo, nonostante la fatica. Ciascuno di noi ha poi fatto la conoscenza di persone che fino a pochi istanti prima erano sconosciute, persone che hanno la loro vita e i loro sogni. L’entusiasmo con cui le persone hanno partecipato a questa prima tappa si è mescolato al desiderio di ricucire simbolicamente l’Italia, divisa e lacerata. L’appuntamento sarà domani alle 7.30 in Piazza Italia, nel centro di Pavia.

Sabato 21 maggio. Seconda tappa: Pavia – Santa Cristina. 27 km

Secondatappa
Con il prefetto di Pavia

Siamo partiti da Piazza Italia nel centro di Pavia, appuntamento alle 7.30. Partenza alle 8.00. Oltre la trentina di persone che avevano già fatto la prima tappa, o che si erano unite la sera prima, si sono presentate altre dieci persone in vari modi avvertiti di Cammina, cammina; chi tramite internet, chi dai giornale, chi da un amico o un conoscente camminatore.
Il Prefetto, Ferdinando Buffoni, ci ha consegnato un Tricolore da portare a Scampia e poi ci ha accompagnato per alcune centinaia di metri, prima di salutarci.
Un gruppo di ragazzi di Crema, studenti e lavoratori, ci ha raggiunto al Castello. Alberto Conte ci ha guidato per le via medioevali della città, attraversato le piazze dei collegi storici, a quell’ora del mattino invase da una luce delicata, rosa, dentro un un’aria frizzante che aumentava ancora di più l’allegria di quel serpentone di gente già rumoroso e stupefacente. Le persone affaccendate nelle proprie occupazioni ci guardavano con simpatia. Ci siamo lasciati alle spalle San Pietro, lì abbiamo incontrato il professor Ferloni ci ha allietato con il racconto della vita di Golgi e della Kuliscioff.
Una lunga pausa a Linarolo è stata l’occasione per ristorarsi, riposare, ripararsi dal sole ma soprattutto conoscersi meglio.
I gruppetti di amici pian piano si sono sciolti e le persone si sono mescolate tra loro, tanto che alla ripartenza si sentivano discorsi diversi, di letteratura erotica francese del settecento, di petrolio, di Pisapia, del ballottaggio, di nostalgia per i cannelloni alla bolognese.
Abbiamo aggirato una cava, rischiando di perderci a causa di un’indicazione sbagliata.
Verso le sei del pomeriggio siamo arrivati a Santa Cristina. Ad attenderci Don Antonio che ci ha accolto in canonica e ha messo a disposizione trenta brandine. Lì abbiamo incontrato un pellegrino tedesco, diretto a Roma, da Losanna non aveva ancora incontrato nessuno! Alcuni sono tornati a Pavia e a Milano. Gli altri si sono sistemati. C’era chi faceva ginnastica, chi si massaggiava i piedi, chi s’asciugava dopo la doccia, chi chiamava la fidanzata o il fidanzato a casa per raccontare la gioia dell’aver terminato la tappa. Il pellegrino tedesco si è unito a noi per cena, mentre altri due ragazzi tedeschi hanno chiesto suonato il campanello di Don Antonio – Pellegrini. Venivano da Roma e tornavano in Germania, a Francoforte. In Germania è obbligatorio alla fine dell’anno scolastico fare un’esperienza formativa di servizio. I due ragazzi, sedicenni, avevano scelto la Francigena.

Domenica 22 maggio. Terza tappa: Santa Cristina – Orio Litta. 20 km

L’appuntamento è alle 7.30 in punto davanti alla chiesa di Santa Cristina. Alberto, esperto camminatore, ci ha avvertito: il terzo giorno sarà decisivo. Giorgio ci ha raggiunto per la giornata e verrà con noi ad Orio Litta. Oggi è domenica, per alcuni è l’ultima tappa, devono tornare al lavoro, il gruppo si è un poco ridotto, camminiamo in dieci. È il terzo giorno, fa molto caldo, e, dopo l’entusiasmo del primo giorno e la fatica muscolare del secondo, la stanchezza si fa sentire. Facciamo sosta presso il castello di Lamprina. Antonella e Elisa si attardano per visitarlo. Il gruppo si divide tra quelli che vogliono tornare indietro e chi vuole aspettare gli ultimi. Antonella ed Elisa non si vedono neanche all’orizzonte. Proseguiamo.
Il guado sul Lambro indicato dalle mappe è impraticabile. Si riapre la questione della leadership, qualcuno fa appello all’unità del gruppo, qualcuno invita a camminare al proprio passo, senza sentirsi forzato e senza forzare gli altri.
Arriviamo a Orio Litta nel primo pomeriggio; il sole è caldissimo, il paese è spettrale. Mentre aspettiamo che ci aprono, ci ripariamo all’ombra della chiesa. Il sindaco ci accoglie con tiepida partecipazione pur aprendoci la grangia benedettina: quattro letti in una torre. Don Antonio è appena arrivato col furgone, ha portato le brandine. Lo aiutiamo a scaricarle. Mangiamo qualcosa, chi all’ombra, chi al bar. Marta e Giacomo devono tornare a casa. Giacomo ha scritto un pezzo per il giornale.
Chi resta prende possesso dello spazio. Dopo alcune ore molto riposanti, ci raduniamo sul prato per un piccolo esercizio di rilassamento Yoga.
Facciamo conoscenza con Lucia e Francesco, di Perugia. Stanno percorrendo la Francigena per realizzare una guida per turisti americani, australiani, svedesi. Italiani pochi – dice Laura, una bella signora di settant’anni dal volto abbronzato e segnato da rughe sorridenti. Lucia si offre di fare la spola con l’auto per portarci tutti al ristorante. Mangiamo, c’è qualche tensione, la stanchezza, le vesciche, il fracasso dei tavoli vicini, i telefoni che, riaccesi, continuano a squillare.
Torniamo a piedi nella sera che odora di robinia, è buio di colpo. Siamo stanchi, appagati, dormiamo.

Lunedì 23 maggio. Quarta tappa: Orio Litta – Piacenza. 36 km

Cerchiamo i bagagli sull’auto. Siamo in 8 oggi camminiamo verso Piacenza. Una tappa impegnativa. Ogni giorno il caldo aumenta, il sole è sorto molto presto e a svegliarci sono le rondini che fischiano sul tetto. 28 gradi. Attraversiamo campi coltivati, erba medica, piselli, orzo e molte sterpi. Marianna sale sull’auto, zoppica vistosamente a causa di una caviglia gonfia. Ha saputo che l’hanno licenziata, la madre le ha letto la raccomandata al telefono. È arrabbiata, delusa, vuole reagire.
Alla prima sosta Giulia si medica le vesciche, Antonella libera i piedi dagli scarponi, altri appendono i calzini al sole.
Superiamo un tratto di tangenziale e scavalchiamo il Po, percorrendo la banchina riservata ai ciclisti. Entriamo a Piacenza, sotto il ponte dell’autostrada, a pochi metri dall’alta velocità, stanno costruendo un altro ponte, mobile; pare servirà a proiettare un tricolore di luce sul ponte di Piacenza, prima città dei 150esimo, attraverso un gigantesco proiettore. Ci guardiamo senza dire niente, che sperpero di denaro pubblico per i festeggiamenti dei 150 anni.
Oltre al caldo soffocante, 35 gradi, colpiscono i rumori assordanti, l’ostilità dei volti, la bruttezza della zona intorno alla stazione: edifici abbandonati, uno sviluppo urbanistico caotico, casuale, scellerato. La sensazione di una grande decadenza, ovunque povertà.
In stazione ci salutiamo. Giulia torna a Genova (deve traslocare, le hanno decuplicato l’affitto), Elisabetta torna a Milano. Andiamo a fare la spesa nel centro commerciale a ridosso della stazione. La galleria dei negozi sorge intorno e sopra la cinta delle mura romane. La mancanza d’aria, di cielo sopra la testa, di luce, di vento, perfino della polvere, danno immediata sensazione di rigetto. Usciamo dal centro commerciale, ma è più una fuga, e andiamo all’ostello, periferia sud ovest della città. Dopo una lunga pausa di riposo, usciamo dalle stanze come granchi dopo la mareggiata.
Antonella non vuole più camminare, butta lì che il giorno dopo non camminerà, ci raggiungerà in treno per cena.
Molti locali son chiusi il lunedì sera. La situazione obbliga ad allargare la ricerca. Ne nasce un altro episodio di tensione prima di cena.
Per fortuna a pochi metri troviamo una trattoria, un locale aperto. L’oste si strofina le mani nel grembiule da cui spuntano le punte delle scarpe, si schiarisce la voce e con la r di Parma elenca i primi. Torniamo in ostello, appena in tempo per non restare chiusi fuori dal cancello. Sono le undici e siamo distrutti.

Martedì 24 maggio. Quinta tappa: Piacenza – Fiorenzuola. 32 km

Sveglia alle 6.30, ritrovo alle 7.30. Antonella non ce la fa proprio, resta in ostello. Gli altri partono, la tappa è impegnativa. Usciamo da Piacenza e ci dirigiamo verso località i Vaccari. La strada è faticosa e, a tratti, addirittura pericolosa. Qui la Francigena pare non interessare a nessuno.
In località San Giorgio Piacentino, ci fermiamo alla Trattoria Perazzi. L’accoglienza è schietta, come il cibo. Alle pareti fotografie in bianco e nero di vecchi partigiani. Giuseppe Perazzi caduto per la libertà. Leggiamo la notizia del giorno: Calderoli afferma che Al-Qaeda sostiene Pisapia.
Riprendiamo la strada. Il sole è inclemente, non c’è una pianta fino al Castello di Paderna. È il proprietario ad accoglierci. Un piccolo maniero trasformato in laboratorio di idee: biodiversità, riforestazione, piante antiche e rare e molti matrimoni per stare in piedi.
Passiamo l’antico guado dello Zena, traversiamo il Robbio. Per farlo ci togliamo le scarpe e i calzini. Il refrigerio del torrente ci rinvigorisce e ci sprona ad affrontare l’ultimo tratto. Arriviamo al tramonto, dopo dodici ore di cammino.
Alberghiamo nel teatro di Fiorenzuola. Bellissimo teatro lirico della fine del settecento.
A cena si ride molto, la testa fra le mani per la stanchezza. Si tenta di discutere (Saviano, il successo, i pericoli del successo, -esperto di tutto, ma è colpa sua?).
Roberta ci fa ridere per la sua nostalgia dei cannelloni: voglio una sdaura che tira la sfoglia – dice Roberta che ha fatto il corso per diventare sfoglina. Andiamo a letto. Spegniamo le luci del teatro, abbiamo portato le brandine sul palco, ecco stiamo in silenzio. Domani tappa impegnativa, Fiorenzuola Fidenza.

Mercoledì 25 maggio. Sesta tappa: Fiorenzuola – Fidenza, 22 km

Partiamo alle 8.30 da Fiorenzuola. Prima sosta, dopo un chilometro, alla cascina Battibue. Un bastardino ci accoglie baldanzoso, seguito da un dalmata maschio che si butta per terra. I proprietari, una coppia sorridente e sana ci mostrano con orgoglio il caseificio e l’antica ghiacciaia. Non c’è differenza tra forme architettoniche religiose e agricole. Il caseificio ha pianta esagonale come il battistero di Parma, la ghiacciaia scende sotto il livello del pavimento, sei sette metri; al centro l’acustica è suggestiva, la tua stessa voce risuona e vibra, come sotto una cupola a forma di proiettile. Dispiace partire, un pavone fa la ruota e piega le piume, in un rituale di corteggiamento più sensuale di una danza orientale.
Arriviamo a Chiaravalle, di nuovo colpisce la perfezione matematica delle volte, del chiostro, degli spazi. È ora di pranzo, il chiostro è deserto e all’entrata si sentono odori di cucina. A scuotere i sensi un bacile dove galleggiano petali di rosa; maggio è il mese della Madonna.
Sosta a Contado Marchesi, chiesa romanica, i ragazzi giocano a pallone (dove trovano le energie sotto questo sole?), le ragazze a pallavolo o chiacchierano sotto l’ombra di un ciliegio, i rami toccano terra, appesantiti dai frutti. Molte, moltissime amarene, color rubino.
Arriviamo a Fidenza, attraversiamo una rotonda, i vigili ci fermano e chiedono dove stiamo andando: Convento dei Cappuccini.
Prendiamo possesso delle stanze, o meglio, delle celle. Alcuni si lavano, altri fanno il bucato, qualcuno va a fare la spesa, questa sera stiamo in casa, c’è la cucina.
Frittata di farina di ceci, risotto agli asparagi, insalata, melone. Domani comincia la salita.

Giovedì 26 maggio. Settima tappa: Fidenza – Fornovo. 38 km

Siamo partiti alle 8.30, in ritardo; è il terzo giorno che facciamo fatica a partire, forse la stanchezza, un poco di indecisione nel caricare i bagagli, e la confidenza di cinque giornate insieme. Quelli che ce l’hanno fatta son pochi e molto uniti. Gianluca ci aspetta alla Pieve di Cabriolo, è un esperto camminatore di Fidenza, infermiere e poeta.
Un filare ordinato di gelsi conduce alla pieve, prima tappa della Francigena. La Pieve è dedicata a Thomas Becket, un antico tempietto dei templari, trasformato in cappella della mansio militare e affrescato dal maestro della trinità. A sinistra, tre calici rappresentano la trinità in maniera insolita, cioè come tre enti distinti. L’arcangelo Michele pesa le anime, Madonna, Gesù e Giuseppe figurano sorridenti. L’autore dell’affresco ha accentuato la rotondità del ventre di Cristo, ombelico del mondo.
Superiamo Santa Margherita e raggiungiamo il Castello di Costamezzana. Un fornaio sbuca da una curva e alza il braccio in segno di saluto, poi rallenta. Si sporge dal finestrino e ci lancia dei pani appena sfornati. Il cielo sulla Cisa diventa scuro e le nuvole si addensano, promettono pioggia. Sosta nei pressi di Medesano, Gianluca ci insegna a giocare con gli acronimi, con un esperimento di scrittura collettiva componiamo il suo, Gianluca: genuino, amante, natura, libera, una, coscienza, acritica. Camminiamo lungo la ciclabile, incontriamo Padre Johnson. Lo avviciniamo, scattiamo una fotografia di gruppo e lo festeggiamo. Padre Johnson sta percorrendo le nostre medesime tappe in occasione del cinquantesimo anniversario del sacerdozio. Siamo a metà tappa, alcuni di noi sono stanchi, Fabiola perde sangue dal naso, io sono cotto. Il cielo brontola e diventa nero, al di là del Taro. Aspettiamo un pellegrino in arrivo alla stazione di Fornovo, proveniente da Roma. Gianluca corre in stazione, a prendere l’ultimo treno per Fidenza. Improvvisamente uno scroscio rinfresca l’aria, la pioggia tanto attesa.
Alloggiamo in una casa delle Poverelle di Santa Maria, una vecchia colonia della fine dell’ottocento, ampliata nel 1920. Ad abitarla tre giovanissime suore del Madagascar. Quando aprono le porte delle camerate sembrano non averle mai viste, nemmeno loro: bagni, docce, salotti. Ceniamo insieme, la cuoca ha preparato la pasta. Domani è dura: ci aspetta il primo pezzo della Cisa.

Venerdì 27 maggio. Ottava tappa: Fornovo – Cassio. 28 km

Siamo partiti alle 8 in punto. Oggi Manuel, Fabiola e Giulia ci lasciano, tornano a casa. Rimaniamo in parola che ci rivediamo tutti a Milano, alla Cascina Cuccagna. Antonio è arrivato alle 7.30. Jonny e la sua amica sono scesi dal treno da Bologna alle 7.45. le amiche di Giovanni sono di Bologna, San Giovanni in Persiceto - precisano. Ordinati, lasciamo il Duomo alle spalle, imbocchiamo via Marconi e iniziamo la salita, un tornante, un altro. Oggi è tappa di montagna. Dislivello di 800 metri in 20 km di tragitto. Il sole è velato e si sente meno caldo grazie al vento. Alla prima sosta il gruppo si ricompatta, chi si toglie scarpe e calzini per fare respirare i piedi, chi si disseta. Un altro Di Imola è arrivato alle 8.15, ha avvertito. Spunta dai tornanti con passo deciso, sorride. Michele di Roma si rialza in piedi, s’aiuta con la racchetta, ha occhi blu prussia di bambino ingenuo e di stupore. Ripartiamo, una cappellina ad una forcella ci spinge verso valle, Antonio scivola sul brecciolino e per un istante temiamo si sia fatto male. Invece niente. Si rialza, pulisce la mano da due sassolini e riparte. Imbocchiamo la provinciale per un lungo tratto, fino alla sosta successiva, un albero carico di ciliegie, a fianco di una cappella votiva. Lungo il percorso, come tante stazioni di una via crucis, cappelle e monasteri dell’XI secolo segnano i cambi di pendenza. Ci fermiamo in un pratino davanti alla Pieve di Boiardo.
Proseguiamo verso Terenzo, la pendenza aumenta, si suda, nonostante il vento che scende dalle vallate intorno. Proseguiamo attraverso un sentiero nel bosco, il vento scuote le chiome degli alberi, le foglie tremolano. L’insieme dei rumori, chiome, foglie, rami sembrano una danza vorticosa. Sudati ma molto felici, sbuchiamo al castello di Casola. Dominiamo la pianura: Parma, in lontananza, e dall’altra parte Luni, la Toscana.
Troviamo un piccolo albergo, come di montagna, ci fermiamo a mangiare. Due motociclisti tedeschi hanno appena finito di bere un cappuccino. Ci sono solo altri due avventori con un cane: due svizzeri, madre anziana, figlio, e un weimaraner dagli occhi ghiaccio. Hanno difficoltà ad ordinare e ci chiedono un consiglio. Ordiniamo tutti insieme 15 pappardelle al sugo di carne e una in bianco, Federica è vegetariana. È il cane di Goethe – dice lo svizzero – ma è meno intellettuale. Goethe l’intellettuale, Goethe l’esteta, il sensuale, lo studioso dei colori, il viaggiatore d’Italia, colui che è entrato in Roma su una portantina, colui che ha scritto del tempio di Paestum coperto di merda di pecora.
L’oste si china a raccogliere le foglie strappate dal vento, stupisce la forza. Riprendiamo la carrareccia, tra i boschi, il sentiero si assottiglia e scende ripido, malacosta lo chiamano i locali. Arriviamo a Cassio, luogo isolato, abbandonato, che porta i segni della decadenza alla fine degli anni Sessanta, in corrispondenza della costruzione dell’A1. Sembra la trama di Cars.
Cena da Veronica, di fronte all’ostello, l’albergo è una struttura moderna, con una facciata piena di finestre con molti vetri di alluminio, c’è un tale silenzio qui, non passa nessuno, eppure un tempo doveva essere molto trafficato, i camion soprattutto. Il ristorante è stato rilevato da una famiglia di estoni.
Dopo cena, si discute attorno al tavolo del senso della camminata, alcuni propongono di migliorare la comunicazione, soprattutto locale, avvertendo del nostro passaggio i comuni, altri addirittura di volantinare.

Sabato 28 maggio. Nona tappa: Cassio – Cisa. 27 km

(Foto Alberto Vesprini)

Siamo partiti dall’ostello di Cassio alle 8.00. Alcuni di noi erano svegli già dalle sette, io e Antonio dalle sei. Antonio si è alzato piano, compiendo piccoli gesti meticolosi, si sfrega il ginocchio con l’arnica, apre la finestra, il cielo è limpido. Dalla finestra entra un’aria fredda, mi tiro il sacco a pelo sopra la testa, poi mi faccio forza, è ora di mettersi in moto. Il vento ha ululato tutta notte sotto i coppi del tetto e ha ripulito le nubi minacciose della sera. Scendo dalle scale e apro le porte delle camerate, alcuni sonnecchiano, altri, svegliati dal rumore, aprono gli occhi. Vado al bar e do un’occhiata alle notizie del giorno. Arrivano Antonio e Giovanni, sono i primi e stanno discutendo animatamente. Antonio è rimasto sveglio la sera prima e riporta i suggerimenti e le osservazioni degli altri su come migliorare l’organizzazione di Cammina cammina. Antonio puntualizza, Giovanni ribatte, si giustifica, spiega. Arrivano anche gli altri, tranne due o tre, ci siamo tutti. Ho lasciato le mappe sul tavolo, così ognuno può farsi un’idea della tappa. Siamo stati fortunati, la giornata è splendida, decidiamo di fare la Cisa. Anselmo, il gestore dell’ostello, mi insegue per consegnarmi la fattura e dice di evitare alcuni tratti di Francigena: l’erba lunga e bagnata può farci scivolare e poi ci infangheremmo. Invece il sole ha asciugato i sentieri e l’erba è coperta solo da un leggero strato argentato di rugiada che rimuoviamo col nostro passaggio.

(Foto Alberto Vesprini)

Fabiola e Roberta oggi guidano, una ha legato il garmin allo spallone dello zaino, l’altra consulta di tanto in tanto la stampata del percorso. Alcuni tratti son sbarrati col filo spinato (i cinghiali, forse) per scavalcare agli uomini sono riservati steccati a forma di scaletta muniti di pioli di legno. Sbuchiamo a Berceto alla fine di una lunga discesa. Ognuno ha un’ora per procurarsi del cibo. Ci sparpagliamo per il paese, allegro come una località balneare. In fondo ad un vicolo stretto un piccolo fornaio, la focaccia è finita, ci sono solo pagnotte. Ne prendo una, esco e mi siedo su un muretto al sole. Mi libero delle scarpe e tolgo i calzini e li lascio al sole ad asciugare. Arrivano Jonny, Federica e più indietro Antonio e Michele. Entrano in farmacia, mentre Federica tira fuori dallo zaino un sacchetto di noci. Spezziamo il pane e mangiamo pane e noci. Antonio esce e si sistema i cerotti, ha un alluce valgo e gli duole. Michele rimane in farmacia, lo aspettiamo, poi, visto che non esce più, decidiamo di aspettarlo in piazza. Giovanni è in mezzo alla piazza e raccoglie i soldi per l’ostello. Un ciclista ha forato e sta cambiando la gomma sotto l’ombra degli alberi. si vede Michele in lontananza, che agite le braccia, ha deciso di finire la tappa in auto. Partiamo.

(Foto Alberto Vesprini)

Fabiola riaccende il gps, fatica ad orientarsi, cerchiamo il Duomo, via Roma. Gli altri si sono accodati spontaneamente a uno del gruppo che per istinto si incammina nella direzione da cui siam venuti, ma la Francigena è dalla parte opposta. Ne nasce un piccolo diverbio sulla conduzione del gruppo. Fabiola timidamente sta prendendo il comando, sta crescendo, entro sera avrà in mano il gruppo (del resto è capotreno). Imbocchiamo un sentiero, cinque chilometri di dislivelli, pause e ripartenze. I prati son pieni di borragine che colora di violetto i prati verdissimi. Dappertutto odore di tigli in fiore. Quando arriviamo in vetta si vede il mare, ha lo stesso colore grigio verde delle cime delle montagne. Ci sediamo nell’erba, in cerchio. C’è chi si sdraia appoggiando la testa sullo zaino, chi scartoccia il pranzo: un pezzo di crostata, un poco di frutta secca. Giulia gira con il sacchetto delle albicocche disidratate e le offre. Il vento sbuca dalla vallata e anima l’erba lunga dei prati, agitandola come chiome. Il rumore dell’autostrada in fondo alla valle si sente lontanissimo, come una reminiscenza. Ci guardiamo l’un l’altro felici, sudati, stanchi, con la pelle dei volti arrossata dal sole e dalla fatica. Sembriamo chiederci l’un l’altro come abbiamo fatto a conservarci così puri. Qualcuno accende il telefono, qualche messaggio qua e là. Le auto ci aspettano al bar sulla statale, scendiamo il sentiero più scosceso tra fitti rami di alloro che attraversiamo come una galleria, tra i rami non filtrano nemmeno i raggi del sole. Il bar è pieno di motociclisti, mentre aspettiamo gli ultimi, ci sediamo al sole sui gradini del santuario. Nell’aria c’è odore di formaggio marzolino e di gas di scarico delle moto, quello è il loro punto di ritrovo. Di fronte ai gradini, sulla strada, sorge un edificio in cemento armato con moltissime finestre e un tetto spiovente due piani. Pare chiuso da anni. Il negozio dalla cui porta proveniva il profumo dei formaggi ha un’insegna nuova nuova: souvenir della Cisa. Quella vecchia, che spunta sotto risale al ventennio (lo si capisce dai caratteri), riporta la scritta: salumi e formaggi.

(Foto Alberto Vesprini)

Souvenir della Cisa? Ma quali souvenir, è tutta roba da mangiare – dice Antonio. Ci siamo tutti, la tappa è finita, ma alcuni vogliono scendere a Berceto a piedi, lungo la statale (abbiamo creato dei mostri). Ci ritroviamo più tardi alla collegiata del seminario arcivescovile, prendiamo possesso delle celle. Una volta non c’erano i letti a castello, altrimenti ci si sarebbe inchiappettati tutti a vicenda - dice Antonio ricordando il suo primo Esordio.
Esco a far ginnastica nel giardino del collegio. Un’altra struttura religiosa destinata alla formazione di preti che risulta del tutto spropositata rispetto al numero odierno di vocazioni. Quale sarà il destino di tutte questi luoghi progettati per il ritiro spirituale? Non basta certo mettere i letti a castello nelle celle per trasformarli in ostelli o peggio ancora in alberghi. Torno in camera e getto un’occhiata al refettorio. La cucina è attrezzatissima e obbliga a preparare la cena comunitaria. Chi non si è ancora fatto la doccia va a fare la spesa, chi è pronto apparecchia, prepara il soffritto, affetta i pomodorini. A cena siamo in sedici, altri tre sono arrivati in stazione, da Pisa, da Roma, da Livorno. Scopriamo che, oltre a noi, nella collegiata ci sono altre due famiglie di Parma con sei bambini. Dopo un iniziale momento di imbarazzo sull’occupazione della cucina, decidiamo di cucinare e cenare tutti insieme. In cucina si sentono accenti di diverse regioni, arriviamo ad un punto di distinzione tale da cogliere sfumature tra Parma e Bologna, tra Pisa e Livorno, nei modi dire, nelle ricette, nel modo di pensare.
Siamo molto stanchi, gli ultimi arrivati vanno a letto, l’indomani devono svegliarsi alle cinque se vogliono fare la Cisa. Antonio e Jonny fanno una passeggiata e restano chiusi fuori (ma questo lo sappiamo solo il mattino dopo).

Breve pausa

Doppiamente felice (breve rientro a casa) Perché ci sono stato e ci posso tornare (davvero posso?).
Cammina cammina è un’esperienza esaltante. Ho incontrato persone libere e felici. Le voglio ringraziare tutte perché abbiamo condiviso insieme questi primi dieci giorni. Camminare è indubbiamente la dimensione del pensiero umano (5km/h). Senza scomodare l’Heidegger de In cammino verso il linguaggio (del resto non poteva intitolarlo in sosta, in corsa, in volo), ho la sensazione che camminare consenta autenticità, qui e ora, da sein appunto. Perché fermi si muore e perché il viaggio è la ricompensa. Ecco come si presenta Cammina cammina, un’occasione per stare con se stessi, per sentirsi, insieme agli altri. Una piattaforma aperta, senza pregiudiziali. Cammina cammina non dichiara nemici, non obbliga allo schieramento. Si manifesta in una forma instabile, deregolamentata, perciò obbliga a sapere, ad informarsi, ad adattarsi alle mutevoli condizioni del pellegrino. A prendersi cura di se stessi e degli altri e in tempi costì rapidi che non c’è possibilità di rimedio, scorciatoie o, ancor peggio, di scaricare sugli altri il peso del proprio zaino. Ringrazio le persone che hanno reso possibile tutto questo e anche di più: lo hanno fatto col sorriso (Fabiola, Roberta, Giulia, Erica). Forse quel sorriso che è mancato a me (la stanchezza soprattutto e la responsabilità). Le ringrazio per non avermi chiesto di essere organizzatore, guida, pastore, decisore, capo gruppo etc, ma semplicemente uno presente e che si defila volentieri. Per tutto questo arrivederci a Sarzana.

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2 thoughts on “20 – 28 maggio 2011: da Milano al Passo della Cisa

  1. roberta salardi scrive:

    “Camminare è indubbiamente la dimensione del pensiero umano”: sono d’accordo. Bel racconto. Arrivederci,
    Roberta S.

  2. complimenti e buon cammino a tutti!!

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