I piedi per terra

Di Andrea Amerio

Aprile 2011: Amerio & Moresco perduti chissà dove tra Milàn e Pavia…

Andrea Amerio del “Primo amore” – tra l’altro uno dei tre valorosi (gli altri due essendo Antonio Moresco e Tiziano Colombi) che in aprile, ma sotto un sole agostano, testarono senza alcun allenamento la prima tappa del cammino – ha scritto un vivido reportage su “Cammina cammina” tra Lucca e San Miniato, e lo ha pubblicato sul blog del “Primo amore”. Lo riprendiamo qui molto volentieri.

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Mani avanti

Gentile lettore elettronico,
sono la persona meno adatta a stilare un resoconto. Non ho mai portato l’orologio, confondo i giorni, non ho alcuna memoria per le persone. Ci sono tipi a cui mi dicono che mi sono presentato almeno otto volte in anni successivi, a ogni nuovo incontro, nonostante ci fossimo già visti circondati dalle stesse persone, ogni volta. Inoltre sono estremamente distratto. Perdo tutto. Mi dai una cosa in mano e puf sparita (per esempio dieci anni fa eravamo in autostrada diretti a Scrivere sul fronte occidentale e Marco Drago mi fa ‘leggi l’intervento che ho scritto per il convegno’. Quel giorno lui parlò a braccio e non si seppe mai che fine avessero fatto i fogli che mi aveva passato).
Invece durante il cammina cammina è sparita la bandana che mi aveva prestato Alessandra perché avevo lasciato chissà dove il cappello ed è sparito anche uno dei due bastoncini telescopici che mi aveva passato Dario, il generoso di Transeuropa, che li usava perché aveva una caviglia malandata e glassata di Voltaren (ma ho poi saputo che anche a lui erano stati prestati da qualcun altro che nel frattempo era partito). E dire che ero tornato indietro già due volte a riprenderlo, quel benedetto bastone telescopico, perché una volta l’avevo lasciato a Fucecchio vicino a una fontana, e un’altra nel giardino di casa Nelli dove avevamo fatto una sosta con tutta la carovana per bere e fare una doccia con la pompa dell’acqua. Adesso chissà dove sarà, quel benedetto bastoncino telescopico. In ogni modo, caro lettore dall’invidiabile soglia d’attenzione, quello che segue è un resoconto basato sui fatti ma ruzzolato giù in fretta verso il picaresco alla buona e sicuramente ci troverai lacune, imprecisioni, stile sciatto, digressioni, lungaggini intollerabili all’editor e molte altre sciocchezze perché si fonda sulle impressioni fallaci di un narratore distratto che pensava molto di più a camminare che non a tessere un ordito romanzesco, e tantomeno a stilare un documento dettagliato e affidabile. Quindi perdonalo sin da ora se confonderà persone, episodi, luoghi, tempi, o se sarà bizzoso e tonto. Oltre le inevitabili parzialità del suo limitato punto di vista, potrà capitare che una timida battuta notturna deflagri precocemente sotto l’impudica luce del giorno precedente, o che al contrario parole dette nel centro di Lucca debbano restare congelate fino a San Minato e solo allora possano finalmente liquefarsi e parlare; e magari però suoneranno distorte come le parole gelate che Gargantua e Pantagruel trovano al polo nord quando si sciolgono. Camminando capita che le carte nel mazzo si rimescolino. Non me ne volere. L’importante è che il narratore inattendibile non abbia tradito il senso di questa lirica e comica impresa o lo spirito delle liriche e comiche figure che ne costituiscono la linfa vitale e il midollo. E se così fosse, come scrisse una volta qualcuno, “non s’è fatto apposta”.

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Venerdì 3 giugno 2011. Quindicesimo giorno di marcia.

Si parte dalla nobile e antica città di Lucca nei pressi di Porta Santa Maria. La meta è Altopascio. Come da programma, di fronte all’ostello di San Frediano, sotto l’armonico camminamento delle grasse mura della città, alle 8 in punto ci sono una quarantina di persone con in pancia cappuccino e brioche pronte all’avventura. Antonio mi chiede se posso chiudere il gruppo. “Certo, certo, no problem”. Si annuncia una giornata rovente. Lo intuiamo già dal mattino presto attraversando Lucca dalle ombre ancora lunghe dei palazzi e nei tagli di luce che rimbalzano sulle le vie strette del centro scintillando in basso nelle pozze d’acqua piovana lasciate dal temporale che ieri ha sorpreso e sparpagliato il gruppo, oppure in alto, nel verde marmo delle policromie che cingono chiese e battisteri. Eppure, dopo nemmeno un quarto d’ora ci fermiamo sui gradoni di fronte alla chiesa di San Martino dove Giovanni, che conosce bene i posti perché è nato da queste parti – il padre era contadino –, ci mostra il misterioso labirinto di Salomone scavato nella parete in pietra del porticato e ci racconta la leggenda del volto santo custodito nella chiesa. Sarebbe bello fermarsi ad ascoltarlo nell’inedita veste di Cicerone ma la strada ci attende e Tiziano mi chiede se posso chiudere il gruppo, o almeno se posso provarci. Di controllare, quando si decide di partire dopo una pausa, che ci siamo tutti. “Certo certo, no problem”. Però a me manca la vocazione del cane pastore per cui un po’ abbaio negli attraversamenti rischiosi per richiamare l’attenzione, e un po’ disattendo le consegne perché mi pare che il nessuno abbia voglia di fare il gregge controllato da un Cerbero/Cujo della mia risma. Così, anche chi si ferma ad allacciare una scarpa, a ritirare al bancomat, o a fare una foto, poi riguadagna facilmente per conto suo il gruppo che pur procede a passo spedito e, guarda, è già uscito da Porta S. Gervasio e ora prosegue dritto fino al Santuario di S. Gemma, gira a sinistra e continua fino alla frazione S. Margherita, per poi incrociare la strada provinciale e la pieve di Capannori. La tappa è abbastanza facile però purtroppo è quasi tutta su strada e dunque i nemici sono il caldo che sale dall’asfalto, le macchine e i camion che sfrecciano sulla provinciale e il solito sole che brucia alto e sfinisce chi, come me, non ha creme protettive, ha dimenticato a casa il cappello, rotto gli occhiali da sole, e si trascina un piede con un unghia dell’alluce mezzo strappata, tumefatta e ballerina, che non concede scarpe chiuse comme il faut, ma favorisce, in compenso, un facile approccio con altri camminatori. Così, felice di potermi concedere il lusso di uno stoicismo a buon mercato con cui rompere il ghiaccio, a forza di “cosa ti sei fatto”, “mamma che impressione”, “ma non ti fa male?” e “dio che schifo”, alla fine ci si conosce, e, scivolando avanti e indietro all’interno della colonna di camminatori in marcia alla volta di Altopascio, dalla testa alla coda, grazie al mio unghione ballerino vedo tratteggiarsi identità leggere intenzionate a conoscersi nel comune rispetto della fatica altrui, senza ammorbarsi, possibilmente ridendo.
Per esempio conosco Erica, una ragazza sottile e molto carina che mostra ancora meno dei suoi ventisei anni e che tenterà l’impresa nel suo insieme, e poi Fabio, un camminatore esperto che ha nei tratti somatici qualcosa di Raul Bova mischiato con Neri Marcoré. Anche lui è deciso a tornare tra Roma e Napoli dopo aver fatto già diverse tappe negli scorsi giorni da Milano a qui. Fabio ha fatto a piedi anche il giro della Sicilia e ci racconta di zone dove era difficile passare e di macchine dei carabinieri che scortavano l’insolito corteo non autorizzato per le strade dell’isola. È qualcosa che potrebbe succedere anche al cammina cammina superata Formia, quando saremo più vicini alla meta. Conosco Antonella, insegnate di scuola primaria di Milano che si è presa un anno sabbatico. Ha deciso di arrivare almeno fino a Roma e in tutto ha già fatto ben otto tappe, con qualche giorno di pausa in mezzo. Le piace l’idea di provare a trovare il suo limite e di farne esperienza e le piace la libertà di questo non gruppo in cui ognuno si aggrega e si distacca come e quando gli pare. Passo a scambiare due parole con Giorgia che insegna italiano e storia nei licei, con Vincenzo, “per gli amici Roberto”, e con Raffaella che lavora con i malati di mente coordinando piccole comunità di recupero e reinserimento sociale: tutti e tre sono di Lucca, ma prima non si erano mai conosciuti. Poi incontro Carla e Chiara (la prima). Sono matematiche neo laureate o neo dottorande di Pisa, non ricordo, e Miriam di Milano, operatrice didattica in una fattoria e insegnate di danze popolari. Da Torino, ecco Sabrina che lavora in campo tessile ed è molto in forma, Domenico, informatico e Roberto, che lavora nel marketing della Ferrero e mi dice di aver riscoperto “il valore attivante della sorpresa”: “mi piace che ogni tappa è diversa dalla precedente, e in qualche modo unica. Non sai dove arrivi, quando arrivi e chi incontri”. Da Parma vengono Maurizio, che vuole aprire un locale, autore di un libro sul Duomo di Parma, e Beatrice, veneta in trasferta per amore. Cammina cammina si arriva a Porcari, toponimo che suscita prevedibili commenti e varie amenità, quindi imbocchiamo la provinciale fino alla frazione Turchetto. Scivolando avanti e indietro nella colonna raggiungo un gruppetto di amici che viene della “Brianza velenosa”, come mi dice Paolo (citando Battisti) che è un “educatore in ricerca” con una faccia allegra da Georges Perec abbronzato. Sempre dal gruppo brianzolo viene anche Lorenzo che mi pare una persona intelligente, taciturna e delicata. È un ricercatore, “uno scienziato”, mi dicono, ma lui si schermisce. Si occupa di scienze ambientali e in particolare di telerilevamento e analisi di immagini satellitari. Mi chiede cortesemente se in quello che scriverò posso ricordare che lo ha molto colpito una frase scritta sul fianco del Santuario di Santa Gemma che abbiamo appena passato e che parla di cose come amore e sofferenza. Io gli rispondo a tono “e no che non posso! caro il mio Lorenzo, scrivitela da solo, la tua frase di Santa Gemma. Io non so… Potete scrivere tutti sul blog e venite a rompere a me! Ma va, vai… sai quanti siete qui? Più di quaranta capito? Più di quaranta! Non posso mica stare dietro a tutti. E che cazzo, arrangiatevi!”. Oh, là. Certo che certa gente è proprio cafona. Meno male che il cammina cammina li rende migliori.

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Continuando a simpatizzare con i camminacamminatori conosco Roberta e Fulvio, che sono sposati. Lei si occupa di arredamento di interni e grafica pubblicitaria, lui è un ricercatore universitario. “E che ricerchi?”gli chiedo
– Geografia
– Bello… …  Tipo gli affluenti del Nepal
– Veramente il Nepal non è un fiume
– Bravo! Vedo che non ci sei cascato, bene bene … … era una trappola! … Eh eh. …  … A parte gli scherzi, tu sai tutto sulla geografia … voglio dire tipo confini, montagne …
– In realtà quella che studio è una Geografia un po’ diversa da quella fisica: mi occupo di analizzare le gated communities…
– mmm
– Enclave residenziali… hai presente… ne parla anche spesso James Ballard in molti suoi romanzi: L’impero del sole, Cocaine nights, Running wild
– mmm
– ne parla anche Tom Coraghessan Boyle in Tortilla Curtain…”
– mmm … … … … la capitale della Tanzania?”

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Foto: Giuliana Petrucci

Poco prima della fine della strada asfaltata al limite di una recinzione dovremmo girare a destra imboccando un tratto di sentiero poco visibile che attraversa un campo e conduce a un boschetto. Ci sono incertezze sul da farsi. Il campo da attraversare è lungo e assolato e non ci si può permettere di sbagliare. Ci si consulta e si discute, ma senza prevaricazioni. Io lascio fare a chi ne sa più di me e cerco di rendermi utile: “il prossimo anno perché non facciamo il ‘quod quod’? sarà meno poetico ma vuoi mettere: ‘Ricuciamo l’Italia con i nostri carburatori'”. Sciolto ogni dubbio proseguiamo dritto e seguendo il bordo del campo fino all’angolo tra due filari scendiamo in un sentiero nel bosco che sbuca su una carrareccia che costeggia una vigna e lascia intravedere nella calda foschia la Badia di Pozzeveri. Arrivati allo spiazzo di fronte alla Badia facciamo un’altra pausa di un quarto d’ora a base di acqua e frutta fresca e secca. Non dobbiamo fermarci troppo perché anche oggi attorno alle cinque è prevista pioggia e si vorrebbero evitare i disagi di ieri. Costeggiamo la Badia sulla destra e imbocchiamo la strada asfaltata che s’inoltra per i campi. Dopo l’incrocio con la provinciale torniamo sulla strada e proseguiamo dritto entrando nella frazione di Corte Ginori. Continuiamo a camminare un’altra ora e mezza per luoghi di cui non ricordo quasi nulla perché sono troppo occupato a parlare di cinema con Jonny. Attorno alle 16.30 siamo ad Altopascio e raggiungiamo la palestra comunale dove passeremo la notte. Poco dopo il nostro arrivo come preventivato si mette a piovere ma ormai noi siamo al coperto e che ci frega. Anche questa è fatta, mi dico, sono sereno e ottimista, felice di stare molto meglio di come stavo alla fine della tappa di prova del 9 aprile. Nella palestra si dorme sul pavimento ai bordi del campo da basket, le docce e i bagni non hanno luci né porte, il cesso è alla turca e senza scopettone ma non sento una lamentela. Fuori c’è un bar e un campo di calcio dove giocano un incontro dopo l’altro di categorie minori. Ci dicono che durante gli incontri, per non disturbare i genitori dei futuri campioni sarebbe meglio non avvicinarsi al campo e, se proprio vogliamo seguire le partite, di andare sugli spalti.

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Dopo cena io e Chiara (la seconda, designer) rientriamo nella palestra. Mentre stiamo per lavarci i denti illuminati da una torcia elettrica di Gabriella che pare uscita dalla ddr, sento che fuori ci sono rumori di gente allegra e allora, appena affaccio la testa fuori dall’edificio, vengo messo in mezzo. “… ecco prendiamo lui!”, dice Roberto del marketing Ferrero, e mi tira fuori dalla porta. Mi trovo davanti il gruppo degli otto o nove brianzoli. “Dimmi il titolo di una canzone di Scialpi”. Non la so. “Una di Drupi”. Manco. “Una di Riccardo Fogli”. Silenzio. “Viola Valentino?” Nisba. Chi è Enzo Ghinazzi? Ehm… Impietosita Miriam suggerisce: “Pu…” … “Pu..” “Pupo!” L’ho beccato! Evvai! Esulto. “Una canzone di Pupo?” Sudo freddo. Aiutino. “Su di noi…” e allora vado avanti a cantare ed è tutto una pacca sulle spalle. “Vedo che sei un finto timido” mi dice Roberto. “Non sai quanto”, rispondo. Ma nel frattempo arriva anche Chiara (la seconda) che viene subito messa alla prova sulla domanda di Pupo e se la cava cantando “gelato al cioccolato” e poi Gabriella che stupisce tutti tenendo banco e compiacendo i nostri interlocutori e anche me, che già gustavo sciogliersi un episodio che per un attimo avevo interpretato come uno di quei piccoli diaframmi che poi diventano nocciolo di contraddizione, e paratia, perché temevo di essere stato chiamato come testimonianza vivente del fatto “che questi qui, questi intellettuali chiusi e altezzosi, vivono fuori dal mondo”. Avevano visto giusto ma per questa volta me l’ero cavata, e non se n’erano accorti.

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3/4 (cotti) dell’organiséscion

È mezzanotte.
Nella palestra sono entrate molte zanzare ma anche qualche lucciola fragile e intermittente di quelle che dicono pressoché estinte anche in campagna. Lungo le pareti vedo spostarsi le luci verdi e azzurre degli schermi a cristalli liquidi dei cellulare e quelle appena più potenti e appuntite dei led. Gabriella punta la sua torcia della ddr contro Antonio tornato dai bagni che finge di essere un ladro sorpreso dal guardiano del museo e alza le braccia in un gesto teatrale come a dire “ah mi hai scoperto!”, e per un attimo la sua ombra magra si proietta lungo le pareti della palestra e sul tabellone del canestro, spostandosi come se scivolasse velocissima verso un’altra dimensione. Penso che ci vorrebbero i colori di Peter Doig per rendere le differenti sfumature rosse della gomma dei palloni da basket chiusi nella gabbia e illuminati dalle luci mosse dei telefoni, e che questa grande palestra dal soffitto alto mi regalerà un buon sonno. Ora è silenzio. Sdraiato nel buio rifletto sul fatto che ci sono virtù dell’intelligenza indispensabili ma forse sopravvalutate, soprattutto nel caso siano oggetto di uno sviluppo ipertrofico. Una di queste virtù è l’esercizio dello spirito critico. Esercizio importante, indispensabile, che però non deve trasformarsi in una porta blindata che impedisce di accedere alle nostre energie latenti, potenziali, o nascoste. Chiariamoci: non sto parlando della fede del pellegrino e tanto meno del fanatismo che affossa la coscienza individuale, al contrario credo che la mia intuizione si avvicini di più all’halachà. Ovvero all’umile dottrina delle prescrizioni ebraiche per cui, detto in soldoni, vale il motto “prima fa, poi pensa”. Questa volta ho fatto così. Non ho cercato a priori il senso di questi tanti passi ripetuti ma ho aspettato che fossero questi tanti passi ripetuti a parlare e, addormentandomi, non ho potuto fare a meno di ascoltarmi dentro una delle primissime poesie del giovane Ungaretti, originario di queste parti, che riporto così senza cesure come se fossero un pezzo qualsiasi di una qualsiasi frase: “tra un fiore colto e un fiore donato l’inesprimibile nulla”. Rigirandomi sul mio materassino da ginnastica duretto, infilato dentro il mio sacco lenzuolo, godevo dell’inerzia abbandonata del corpo e, mentre guardavo il riflesso delle luci dei fari delle automobili che passavano fuori la palestra modificare la trama delle ombre e illuminare di concerto il parquet lucidissimo del campo basket, pensavo ai tanti significati racchiusi in quel versicolo che nella notte condensa come rugiada il mistero dei gesti e il mistero del dono, ma anche i misteri della disponibilità e del talento. Della differenza tra l’essere “colto” e il sentirsi “donato”. E mentre il sonno mi ghermisce con la lusinga di poter comprendere l’essenza dell’arte che domani mattina avrò dimenticato, la sostanza intimamente paradossale di quell’inesprimibile nulla che sostiene l’immotivato fiore, l’essere stesso della poesia, mi dicevo “ma allora…
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Sabato 4 giugno 2011. Sedicesimo giorno di marcia.

Ci si dovrebbe alzare alle sei e mezza ma non so quanto tempo prima comincia a propagarsi per la palestra un suono fastidioso, una sveglia che nessuno spegne. “Chissà chi è ‘sto rompicoglioni che se l’è dimenticata…”, penso, “certamente qualcuno che è andato a fare la doccia”. Dopo non meno di cinque minuti di quel bibip bibibibp qualche anonimo volenteroso si alza e la spegne. Era la sveglia di Antonio che ci dormiva attaccato riverso sul suo materasso come se niente fosse. Dice che una cosa del genere non gli è mai capitata in vita sua e gli credo. Che capiti l’imprevedibile è il bello di questa cosa: “Non si sa cosa succederà dopo perché, mentre succede, è già successo”.
Partiamo alle 8 e cinque da Altopascio diretti a San Miniato, in leggero ritardo, giusto il tempo di andare a prendere vicino al municipio un’altra decina di camminatori che vengono da Pisa e si uniscono al gruppo. Siamo una marea, più di cinquanta. “Mi raccomando chiudi il gruppo”, mi dice Giovanni. Certo, certo, no problem. Cazzo devo sbrigarmi e continuare il mio simpatico giro di conoscenze. E su e giù per le fila della carovana raggiungo le persone che ieri mi sembrava di non aver incrociato. Santina è impiegata, Francesca guida ambientale, Stefano ragioniere, Dina educatrice. Marina è amministratore delegato di una srl che si occupa della progettazione e della forniture di arredi per gli asili nido. Un’altra Chiara(e tre) viene da Milano. È con noi da tre tappe e solo ora riesco a parlarle: è un artista/operaia che scolpisce, modella l’argilla e realizza installazioni video. Oggi si è fatta male al legamento di un ginocchio e ha una fascia vistosa. Più tardi la verranno a prendere lungo la strada, in uno spiazzo dove esercita in pieno giorno un’attempata prostituta seduta su una sorta di pietra miliare, e che non pare affatto stupita del nostro passaggio. Chiara non ce la fa più: la gamba le fa male ma generosamente si offre di stare con noi e di assisterci anche nei prossimi giorni guidando la macchina di appoggio che ci segue lungo il percorso.
Percorriamo l’antico selciato della Via Francigena e dopo un paio d’ore superiamo la zona delle Cerbaie, selvaggia e deserta, fino a Fucecchio, dove passiamo a rifocillarci a casa di Nelli. Qui Carla crolla sul divano per il caldo. Ha dato tutto quello che aveva da dare. Io approfitto della pausa per conoscere un po’ il gruppo dei nuovi pisani. Cristina e Abramo sono due matematici che studiano con una qualche borsa di studio e lavorano sulla geometria non lineare, se ho capito bene, ma ne dubito. Poi ci sono Donatella, architetto, originaria di Bari, Silvia, di Milano ma pisana d’adozione, insegnante di matematica e scienze, nonché centravanti di calcetto, Mario, guida turistica e coach. Giorgio è un siciliano che è tornato da due giorni da un avventuroso viaggio di tre mesi in Australia, e non ha intenzione di fermarsi. Un altro Giorgio invece fa “il cameramen senza telecamera”, ma anche il giardiniere tree climber. Sono legati al volontariato in una bottega equo solidale che si chiama “il chicco di senape”. Infine incontro David, ventitré anni, originario di un piccolo paesino di quattrocento anime nei pressi di Dortmunt. Parla un italiano perfetto, dal lessico ricco e virtualmente privo di accento. Gli faccio i miei complimenti e gli chiedo di raccontarmi qualcosa. Studia scienze per la pace ed ha vissuto già alcuni anni in medi oriente dove ha imparato anche il persiano. L’italiano è molto più facile mi dice sorridendo con la sua faccia allegra e pulita. È lui che mi ha prestato i fogli su cui ho preso gli appunti per questo pezzo. Li ha staccati dal centro di un suo quaderno dove di tanto in tanto annota qualcosa. Su uno di questi fogli che mi ha dato è rimasta scritta una frase di suo pugno: “Tanto più ci si rende conto di come gira il mondo, tanto più ci si dovrebbe considerare servi di Dio”. Nel frattempo siamo già ripartiti e ci dirigiamo alla volta di Ponte a Cappiano attraverso un’antica palude bonificata e anche Sergio Nelli marcia con noi. Seguiamo un corso d’acqua che si snoda fra i campi ma non bado troppo al paesaggio (bellissimo) perché discuto con Jonny, Roberta e Gabriella della poesia di Sannelli, Gezzi, Brancale, Marchesini, Annedda, Donati, Febbraro etc. Superato l’Arno percorriamo l’argine verso San Miniato e mentre transitiamo tra Chimenti e Galleno ascolto le avventurose vicende Tina, che lavora all’agenzia delle entrate, e di Gianni, guida turistica, entrambi da Torino. Sono aneddoti che richiederebbero un racconto a parte e per ora li saluto con affetto perché mi hanno fatto ridere fino alle lacrime. A presto! Quando siamo quasi in vista di San Miniato raggiungo Alessandra, un architetto di Roma. Siamo in testa al gruppo e le dico di rientrare nel biscione per non dare troppo nell’occhio. “Stai tu dietro?” Mi dice Tiziano mentre passa. Certo certo no problem. Alessandra oltre a fare l’architetto, è una marciatrice provetta che ha fatto anche la camminata in Sicilia con Fabio e si cimenta in quelle che chiama “esplorazioni urbane”. “Camminare per lei è un mezzo per valicare e sconfinare, per esplorare. Noi lavoriamo su beni pubblici e spazi residuali che sono stati sottratti alla comunità. Cerchiamo di riappropriarcene; ad esempio come abbiamo fatto con un casale abbandonato sulla Tiburtina”. Lasciata Alessandra conosco Daniele, piemontese, e la sua compagna, Cristina, che è una bella ragazza alta e bionda che viene dalla valle Imagna, quella citata nel famoso film di Totò e Peppino a Milano. Terra selvaggia, terra di briganti. Discutiamo della biblioteca di Ponteranica e dell’Ulivo di Peppino Impastato. Lei mi dice amaramente delle ferite che l’irresponsabilità della Lega ha inferto al senso comune in quei luoghi che lei ama e per i quali mi pare di intuire che soffra. Forse lavora in campo medico perché mi fornisce una valutazione molto professionale sul mio unghione ballerino, ma non lo so perché la mia attenzione è subito attratta da una serie di informazioni che non posso rivelare. Infatti le prometto di non scrivere che è parente di un noto politico della Lega di cui non posso fare il nome (Calderoli). Tranquilla Cristina. Bocca cucita. Camminatrice interessante è un’altra Chiara ancora (la quarta!) che ha ventotto anni dei begli occhi verdi e vive a Berlino nel quartiere di Friedrichshain. Ci ha raggiunti oggi con l’intenzione di arrivare anche lei fino a Napoli. In Italia lavorava nell’editoria per ragazzi ma vista l’aria pesante ha pensato bene di andare a cercar miglior fortuna altrove. Così si è licenziata lasciandosi alle spalle una serie di contrattini assurdi e grandi moli di lavoro a fronte di stipendi irrisori. Mi dice che cammina cercando di capire se vale ancora la pena di tornare in questo Paese. È in cerca di identità. A Berlino è da sola e la città non è facile, mi dice, ma mentre parliamo si avvicinano a noi Erica, la sottile ragazza ventiseienne di cui ho già detto, decisa anche lei ad arrivare a fino a Napoli, e Tiziano, l’organizzatore logistico di tutta la faccenda che le abbraccia calorosamente entrambe e dice: “Eccole qua, le nostre colonne”.
“Eh già”, chioso spintonando via Tiziano per abbracciarle a mia volta, “le nostre cariatidi…”

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Cammina cammina arriviamo a San Miniato basso e alla stazione salutiamo Carla, Sergio, Antonio, Dario, Jonny e gli altri che ritornano a casa. Noi proseguiamo verso la fraternità della misericordia che ci ospita per la notte. Io e la Chiara con cui sono venuto (la seconda), anziché nella cappella con tanto di altare e ostensorio in cui dorme la maggior parte del gruppo, finiamo per essere piazzarti in una privilegiatissima roulotte di lamiere arroventate che è rimasta tutto il giorno sotto il sole. È stata trasformata in una specie di ambulanza mobile con tanto di radio ricetrasmittenti e strumenti per la rianimazione. Accanto alla roulotte ci sono due camionette rosse dei pompieri con su la scala antincendio e un altro paio di ambulanze. “Se stanotte questi partono e ci attaccano dietro e ci svegliamo nel mezzo di un incidente stradale? Ci pensi? Nel cuore della notte ci sbattono fuori per far posto ai feriti…”.
A cena, al ristorante “da Rina”, parlo soprattutto con Serena e Tiziano. Serena lavora tra Torino e Napoli. Sarà lei a organizzare le ultime tappe fino a Scampìa. Si parla di problemi logistici e di possibili, probabili, intoppi. “Attraverseremo paesi in mano alla camorra”. “È proprio lì che ci giochiamo il senso della nostra impresa, soprattutto se riusciremo a coinvolgere le persone di quei paesi che sceglieranno di non chiudersi in casa ma di camminare con noi”. Discutiamo vigorosamente. Serena dice che domenica sul “Corriere del Mezzogiorno” sarà pubblicato un estratto della lettera scritta a De Magistris e Pisapia, e che da Formia in poi “Il corriere” pubblicherà ogni giorno i nostri spostamenti. 20 righe al giorno a firma ogni volta di un volontario diverso fino al 4 luglio, l’ultimo giorno di marcia in cui attraverseremo Napoli”. Saremo ospiti di Perrella nella sede della Fondazione del premio Napoli, a Palazzo Reale, in piazza Plebiscito e se saremo veramente tanti il sovrintendente ci metterà a disposizione anche il cortile del Palazzo. Il percorso dell’ultimo giorno dunque sarà da Scampìa a Piazza Plebiscito dove c’è il Palazzo Reale. Un amico di Serena, il regista Giuseppe Cembalo s’è detto disposto a documentare con un film il nostro arrivo a Scampìa. Mentre sento parlare di palazzi reali e di film, e già mi vedo entrare trionfante nella città partenopea con duecento persone e preceduto dalla banda di majorette di Arcore, Tiziano giustamente riporta tutto alla fatica reale di chi è in marcia da tanti giorni. Emergono le nostre carenze organizzative e il nostro desiderio di fare di più. Tiziano e Giovanni, che si fanno tutta la strada, reggono bene, ma è un fatto che non siamo capaci di comunicare al meglio, né di esprimere a pieno le nostre potenzialità. “Non abbiamo nemmeno spiegato chi siamo” mi dice Tiziano. “Il primo amore qui non lo conosce nessuno, nessuno sa che tra i chi cammina ci sono degli scrittori, e quando la sa, il fatto che questa cosa sia venuta fuori da saggisti, poeti o artisti non ha il minimo impatto né la minima rilevanza. Sull’automobile di appoggio abbiamo due pacchi di riviste. Non ne abbiamo fatta vedere una che sia una, a nessuno”. Inizialmente queste parole mi paiono un amaro bilancio ma poi ci penso bene e tutte queste debolezze rivelano ai miei occhi anche una potenza imprevista. “Vuol dire che nonostante le nostre carenze strutturali e organizzative abbiamo messo su qualcosa che ci ha superato in quanto singoli soggetti e in qualche modo anche questa è un opera di genio che trascende la vita stessa della rivista, che vista da qui pare l’elemento germinale di qualcosa che, letteralmente, va avanti con le sue gambe, sconfinando davvero fuori dalle pagine, fisiche o smaterializzate che siano. E poi vuol dire che nessuno è qui per i crediti scolastici o per pubblicare un libro con Effige; vuol dire che qui non c’è nemmeno un leccaculo e che nessuno l’ha fatto per mettersi in vetrina con i propri libri, o per tirar su abbonamenti”. Cristina (quella che non si deve sapere che è parente di Calderoli, tanto per capirci) a questo punto interviene nella discussione che ha ascoltato con pazienza durante tutta la cena e dice che “è vero … insomma presentare la rivista avrebbe potuto avere l’effetto della batteria di pentole a Medjugorje, se capite cosa voglio dire… e poi è molto più bello suscitare curiosità per le proprie iniziative, le proprie posizioni e lo stile che si ha nel proporle e farsi inseguire, piuttosto che rincorrere e imporre a tutti la propria presenza come fa la pubblicità. Magari cala la quantità della visibilità“, dice, “ma cambia anche la qualità dell’attenzione“.
“Zitta sporca leghista”, le rispondo io, “cosa vuoi capire tu delle tematiche portanti di una rivista culturale? Cosa credi, siamo intellettuali noi, mica Borghezio”.

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Foto: Lorenzo Busetto

È notte anche a San Minato Basso e la Fraternità di Misericordia che ci ospita è avvolta dal silenzio. Egle è seduta su una gradinata nei pressi di uno spiazzo per far atterrare gli elicotteri di soccorso di fronte a una chiesa modernissima che pare appena consegnata dal costruttore. Alla flebile luce di un lampione cerca di leggere un breve saggio di Tahar Ben Jelloun su Giacometti preso in biblioteca a Lissone. Intanto nel campo di calcetto vicino alle gradinate Fabio ha ancora la forza di tirare due calci al pallone con alcuni bambini del posto. La avvicino. Egle si occupa di arte. Lavora come guida didattica nei musei, soprattutto per l’arte contemporanea; in più produce quelle che lei definisce “sculture deperibili” e disegna “gioielli precari” composti di elementi naturali.
“Tipo una collana di salsiccia?” le domando con discrezione.
“No, meglio” risponde lei otto mila metri sopra.
Le dico che devo scrivere una cosa e faccio finta che devo intervistarla. Le chiedo che cosa vuole che dica sul senso del cammina cammina per lei e bla bla bla. Ci pensa non più di un secondo e mi risponde che le piace contrasto tra la mente che si svuota dei pensieri e il corpo che si carica di mille impulsi. “La maggior parte sono impulsi di dolore, ma lì in mezzo c’è anche la vita”. Me lo dice così, semplice semplice.
Non ha mai letto una sola riga del Primo amore.

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